Alessia Lanini

DA ADAMO AGLI APOSTOLI

Una panoramica di tutta la Bibbia basata sul testoin sé

Volume (da definire)

Scuola elementare di cristianesimo

Dialoghi sulla prima lettera di Paolo ai Corinzi, condotti da Fernando De Angelis

BOZZA 1 DEL DIALOGO 20: 1CORINZI 8:1-13

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1.Introduzione           
2.«Tutti abbiamo conoscenza» non va inteso letteralmente (8:1)
3.La conoscenza di cui parla Paolo è come quella di Osea       
4.Chi si crede saggio è peggio di uno stolto (8:2)    
5.La cosa più importante è essere conosciuti da Dio e amarlo (8:3)   
6.L’idolo non è nulla nel mondo (8:4)    
7.La vera forza è sapersi fare debole con i deboli (8:7-13)   
Approfondimento n. 12 Trinità: chiara sulla carta, confusa nella pratica
A.Introduzione     
B.La dottrina ufficiale della cristianità             
C.La Trinità nel Nuovo Testamento          

Dialogo 20

1CORINZI 8:1-13

1. INTRODUZIONE

Scorrendo i capitoli 8-10, si vede che nel capitolo 8 è affrontato il tema delle carni sacrificate agli idoli. Mentre nel capitolo 9 Paolo difende il suo apostolato. Poi, nella prima parte del capitolo 10, viene invece applicato l’esempio di Israele nel deserto, al quale segue il tema della cena del Signore confrontata con i riti idolatrici. Alla fine del capitolo 10, quindi, si ritorna all’argomento dell’idolatria introdotto all’inizio del capitolo 8, facendo suppore un collegamento fra i tre capitoli. Il collegamento si può anche cogliere vedendo le parti finali dei capitoli 8 e 10, dove Paolo prima scrive: «Perciò, se un cibo scandalizza mio fratello, non mangerò mai più carne, per non scandalizzare mio fratello» (8:13). Poi alla fine del capitolo 10 troviamo: «Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla chiesa di Dio» (10:32). Se ne deduce che il filo conduttore del discorso è il non scandalizzare.

Come al solito, Paolo comincia con la sintesi di ciò che vuole dire e conclude ribandendola. Il senso unitario dei tre capitoli si può allora trovare nella sintesi finale: «Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio. Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla chiesa di Dio; così come anch’io compiaccio a tutti in ogni cosa, cercando non l’utile mio ma quello dei molti, perché siano salvati. Siate miei imitatori, come anch’io lo sono del Messia» (10:31-11:1). Paolo dice come dovevano comportarsi e poi parla di come lui aveva applicato quegli insegnamenti. Conferma così la coincidenza tra il suo vivere ciò che predicava, predicando ciò che viveva.

Paolo cita Esodo perché Israele in quella circostanza era stato idolatra e vuole avvertire che Dio punisce l’idolatria. Dovevano quindi essere consapevoli che contaminarsi con gli idoli non era senza conseguenze. In questo Dialogo, comunque, ci soffermeremo solo sul capitolo 8.

2. «TUTTI ABBIAMO CONOSCENZA» NON VA INTESO LETTERALMENTE (8:1)

«Quanto alle carni sacrificate agli idoli, sappiamo che tutti abbiamo conoscenza. La conoscenza gonfia, ma l’amore edifica» (8:1).

Questo primo versetto fa da titolo a tutto il capitolo, mettendo in rilievo una tipica impostazione di Paolo e che, per esempio, ritroviamo più avanti: «Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla» (13:2). Ribadendo che una conoscenza senza amore non vale a nulla, se non a nutrire l’orgoglio.

Paolo però usa un linguaggio iperbolico quando dice «tutti abbiamo conoscenza». Questa sintesi è un po’ come un bel quadro, del quale se ne coglie meglio la bellezza mettendosi a una certa distanza. Paolo la usa per mettere in guardia da una conoscenza che nutre l’orgoglio. Infatti, ci sono alcuni che amano la conoscenza, studiano per essere sempre più preparati e si inorgogliscono; altri invece sono già pieni di orgoglio e studiano per nutrirlo. Questo però porta a sentirsi uno scalino sopra gli altri, rendendo difficile poi amarli davvero.

Il motivo per il quale Paolo usa un linguaggio iperbolico, nel dire che «tutti abbiamo conoscenza», è per affermare che quella conoscenza è facile da acquisire. Prendendo l’espressione alla lettera, infatti, ci sarebbe una contraddizione, perché subito dopo Paolo scrive: «Se qualcuno pensa di conoscere qualcosa, non sa ancora come si deve conoscere» (v. 2). Precisando che in realtà la vera conoscenza non ce l’ha nessuno. La contraddizione emerge ancor più vedendo il versetto 7: «Ma non in tutti è la conoscenza». È quindi evidente che al versetto 1, dicendo «in tutti», Paolo vuole trasmettere qualcosa di particolare, che deve essere interpretato tenendo conto del contesto.

È facile comprendere che Paolo abbia come obiettivo quello di colpire gli orgogliosi. I quali si sarebbero messi sulla difensiva se fossero stati subito rimproverati. Dicendo allora che «tutti» hanno conoscenza, è come se Paolo si identificasse come uno di loro, dal quale quindi si aspettavano di essere elogiati. Una speranza che durerà poco, dato che Paolo continua rilevando che «la conoscenza gonfia, ma l’amore edifica».

Si riconferma dunque anche qui che un’interpretazione letterale può portare fuori strada, quando non tiene conto del contesto immediato e più generale.

3. LA CONOSCENZA DI CUI PARLA PAOLO È COME QUELLA DI OSEA

Quando si parla di conoscenza, si sente spesso citare Osea 4:6: «Il mio popolo perisce per mancanza di conoscenza». Di esso ne viene fatto un invito a studiare la Bibbia e la teologia. Bisogna però vedere il contesto per capire quale sia la conoscenza di cui parla Osea. È molto significativo vedere come prosegue: «Il mio popolo perisce per mancanza di conoscenza. Poiché tu hai rifiutato la conoscenza, anch’io rifiuterò di averti come mio sacerdote; poiché tu hai dimenticato la legge del tuo Dio, anch’io dimenticherò i tuoi figli. Più si sono moltiplicati, e più hanno peccato contro di me; io trasformerò la loro gloria in vergogna» (4:6-7).

Il capitolo inizia con «Ascoltate la parola di Javè, o figli d’Israele. Javè ha una contestazione con gli abitanti del paese, poiché non c’è verità, né misericordia, né conoscenza di Dio nel paese: “Si spergiura, si mente, si uccide, si ruba, si commette adulterio; si rompe ogni limite e si aggiunge sangue a sangue”» (4:1-2). Osea, dunque, dice che il popolo di Israele non conosceva più Javè, nel senso che non ne mettevano più in pratica gli insegnamenti e mancavano di misericordia. Non li invita perciò a studiare, ma a santificarsi, cioè ad avere un comportamento adeguato.

È di questa conoscenza che parla Paolo ai Corinzi, i quali tendevano a ricercare un tipo greco di conoscenza, più intellettuale che esperienziale. Paolo vuole invece invitarli a una conoscenza di Dio all’ebraica, che porta a mettersi in sintonia con lo Spirito di Dio, che è capace di trasformare il nostro comportamento.

Tornando a Osea è interessante vedere che poco dopo riprende lo stesso argomento, scrivendo: «Poiché io desidero bontà, non sacrifici, e la conoscenza di Dio più degli olocausti» (6:6). Di questo passo Gesù cita la prima parte nel Vangelo di Matteo per ben due volte (vedi 9:13 e 12:7).  Il fatto che la bontà sia per Dio al centro non è quindi una novità del Nuovo Testamento, ma un’applicazione dell’Antico.

Per Osea, per Gesù e per Paolo conoscere Dio significa conoscere la sua grazia e farne partecipe il prossimo. D’altronde, non possiamo usare bontà e grazia verso il prossimo se non abbiamo prima accolto quella di Dio per noi.

4. CHI SI CREDE SAGGIO È PEGGIO DI UNO STOLTO (8:2)

«Se qualcuno pensa di conoscere qualcosa, non sa ancora come si deve conoscere» (8:2).

Quelli che a Corinto si credevano sapienti in realtà non lo erano. La prima tappa di una vera conoscenza è rendersi conto di quanto ci sarebbe bisogno di conoscere e di quanta conoscenza siamo ancora mancanti, spingendoci all’umiltà. In Proverbi 26:12 era già stato scritto: «Hai mai visto un uomo che si crede saggio? C’è più da imparare da uno stolto che da lui».

Quando Paolo ha introdotto il discorso supponendo che tutti avessero conoscenza (8:1), il suo ascoltatore avrebbe dovuto reagire ammettendo di non averne poi così tanta, mentre Paolo sapeva che la reazione sarebbe stata quella del loro trovarsi d’accordo sull’essere tutti sapienti. Per questo Paolo fa prima presente il contrasto fra una conoscenza che gonfia e un amore che edifica, poi dice che chi si crede saggio dimostra di aver capito poco. D’altronde, nella prima parte della Lettera, aveva definito la sapienza umana come una «pazzia davanti a Dio» (3:19).

5. LA COSA PIÙ IMPORTANTE È ESSERE CONOSCIUTI DA DIO E AMARLO (8:3)

«Ma se qualcuno ama Dio, è conosciuto da lui» (8:3).

È come se Paolo voglia far capire che per conoscere Dio non è essenziale lo studio di una teologia che ci permetta di arrivare a lui, ma che sia Dio ad arrivare a noi. È infatti possibile avvicinarci sempre più alla reggia, ma se il re non esce e ci viene incontro, non potremo mai avere una relazione con lui.

Paolo scrive che l’arma che permette di conoscere Dio è l’amore per lui. Certamente è utile studiare il pensiero di Dio e non intendiamo disprezzare la conoscenza intellettuale, ma Dio vuole prima di tutto che uno lo ami. In Deuteronomio 11:1 c’è prima l’invito ad amarlo e poi ad obbedirgli: «Ama dunque Javè, il tuo Dio e osserva sempre quello che ti dice di osservare».

I Corinzi avevano come modello l’Areopago, dove si disputavano filosofie varie, ma non era quello il metodo per arrivare a Dio, che si raggiunge invece aprendosi al suo amore e amandolo di conseguenza. Paolo qui inizia a preparare il terreno per il capitolo 13, noto per essere come un “trattato sull’amore”.

L’importante, dunque, è che siamo conosciuti da Dio e che lo amiamo, essendone consapevoli.  Questo Paolo lo esprime bene in Romani 8:16: «Lo Spirito stesso attesta insieme con il nostro spirito che siamo figli di Dio». Quindi, siamo conosciuti da Dio non segretamente, ma per una comunicazione diretta dello Spirito di Dio al nostro spirito, che ci dà pace e ci fa sentire accolti e amati.

6. L’IDOLO NON È NULLA NEL MONDO (8:4)

«Quanto dunque al mangiare carni sacrificate agli idoli, sappiamo che l’idolo non è nulla nel mondo e che non c’è che un Dio solo» (8:4).

Non pochi credenti vedono il diavolo dappertutto e si sentono contaminati da ogni minima cosa che non ritengono sufficientemente “spirituale”. Tuttavia, sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento i credenti vedevano dappertutto Dio, non il diavolo.

Dio è particolarmente presente proprio quando c’è il diavolo (vedi per es. Giobbe). Immaginiamoci un padre che porta il figlio al parco. Ogni tanto dà un’occhiata e a un certo punto vede avvicinarsi al figlio un tipo strano. Quanto più il tipo strano si avvicina al figlio, tanto più lo fa il padre. Il padre non si mette a dormire e nemmeno Dio dorme. Non lasciamoci perciò intimorire dalla paura del diavolo, mantenendoci vicini a Dio. La crocifissione di Gesù, ad esempio, poteva apparire come un trionfo del diavolo, ma Gesù ci ha visto invece la vittoria di Dio già prima che avvenisse, quando ha detto: «Io depongo la mia vita per riprenderla poi» (Giov 10:17-18).

Paolo poi dice che «l’idolo non è nulla nel mondo», perciò non c’è bisogno di preoccuparsi per aver toccato la statua di un idolo o simili, perché in realtà abbiamo toccato il nulla.

Tornando al brano in esame, nei successivi versetti 5-6 Paolo fa un inciso, nel quale parla del concetto della Trinità, ma lo fa in un modo che per i cristiani potrebbe sembrare eretico. Questo perché fa una netta distinzione fra il Signore Gesù Messia e Dio Padre, mentre i cristiani tendono a non distinguere, citando solitamente Giovanni 10:30, dove Gesù dice: «Io e il Padre siamo uno». Concludono poi con un «Gesù è Dio», che fa pensare che esista una sola persona.

Molti terminano i discorsi su questo tema dicendo che è un mistero, ma così facendo tornano al dio sconosciuto dell’Areopago (Atti 17:23), quindi al paganesimo. Non vogliamo perciò sorvolare sull’argomento, ma dedicargli l’apposito approfondimento n. 12, posto alla fine di questo Dialogo.

Vogliamo però mettere in chiaro che concordiamo con la dottrina ufficiale della cristianità, che dichiara l’esistenza di tre persone distinte aventi la stessa natura divina. La cristianità professa ufficialmente questa dottrina, ma poi spesso mette in pratica il contrario, rinnegando con il comportamento e la pratica la propria dottrina ufficiale.

7. LA VERA FORZA È SAPERSI FARE DEBOLE CON I DEBOLI (8:7-13)

«Ma non in tutti è la conoscenza; anzi, alcuni, abituati finora all’idolo, mangiano di quella carne come se fosse una cosa sacrificata a un idolo; e la loro coscienza, essendo debole, ne è contaminata» (8:7).

Quelli con la coscienza debole erano comunque dei credenti, visto che poi il debole è definito «il fratello per il quale il Messia è morto» (v. 11). Qualcuno potrebbe chiedersi come sia possibile e allora è bene ricordare che la conversione è una nuova nascita. Un credente appena nato dovrebbe poi crescere, spogliandosi dell’uomo vecchio e rivestendosi del nuovo, rimuovendo anche le sue vecchie concezioni e abitudini idolatriche. È un percorso diverso per ciascuno e che richiede più o meno tempo. Con casi nei quali non si cresce, restando bambini, o addirittura ritornando ad esserlo (Ebr 5:11-14).

«Ora non è un cibo che ci farà graditi a Dio; se non mangiamo, non abbiamo nulla di meno; e se mangiamo non abbiamo nulla di più. Ma badate che questo vostro diritto non diventi un inciampo per i deboli. Perché se qualcuno vede te, che hai conoscenza, seduto a tavola in un tempio dedicato agli idoli, la sua coscienza, se egli è debole, non sarà tentata di mangiare carni sacrificate agli idoli? Così, per la tua conoscenza, è danneggiato il debole, il fratello per il quale il Messia è morto. Ora, peccando in tal modo contro i fratelli, ferendo la loro coscienza che è debole, voi peccate contro il Messia» (8:8-12).

Questi versetti non hanno bisogno di grandi spiegazioni, quindi li affronteremo con una storiella. Un credente è invitato alla festa di Sant’Antonio in un paese vicino, dove ci sarà una porchetta buonissima e tanto altro. Sceglie di accettare l’invito. A questo punto qualche fratello potrebbe pensare che si contaminerà. Tuttavia, l’idolo, in questo caso la statua di Sant’Antonio, non è nulla nel mondo, quindi egli può andare tranquillamente a godersi un’ottima merenda. Il problema sorge se uno, vedendo un fratello in fede che partecipa alla festa di Sant’Antonio, ne trae l’incoraggiamento per adorare l’idolo. Così chi è andato non si è contaminato, ma ha peccato verso il fratello ancora debole.

Paolo diceva che ogni cosa gli era lecita (1Cor 6:12; 10:33), per cui come credente la sua libertà era massima. Era però disposto a non farne uso se la cosa fosse stata di scandalo per un altro (1Cor 10:28-29). Il diritto alla libertà, insomma, va esercitato insieme al dovere di essere d’aiuto e non di scandalo per il prossimo.

«Perciò, se un cibo scandalizza mio fratello, non mangerò mai più carne, per non scandalizzare mio fratello» (8:13).

Questo insegnamento è a volte applicato al contrario. Ad esempio, se c’è un fratello che non mangia maiale, uno potrebbe invitarlo preparandogli una bistecca di maiale, per mostrargli come un cristiano deve essere libero e mangiarla senza problemi. Giustificandosi con il fatto che quel fratello non ha capito ancora la “vera libertà” e perciò bisogna insegnargliela. Così facendo, però, cade lui in errore.

Infatti, la logica di Paolo è un’altra. Se accogliamo un fratello debole e ci facciamo deboli con lui, percepirà il nostro amore e ciò lo renderà più disposto ad ascoltarci e a cambiare. Più avanti Paolo scrive: «Con i deboli mi sono fatto debole, per guadagnare i deboli; mi sono fatto ogni cosa a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni» (9:22). Paolo si faceva debole coi deboli non per lasciarli tali, ma per aiutarli a cambiare. Fare i forti con i deboli crea fratture, divisioni e antipatie. Su questo argomento, in Romani 14:1, Paolo scrive: «Accogliete colui che è debole nella fede, ma non per sentenziare sui suoi scrupoli». Accogliere il debole senza giudicarlo e amandolo, perché «l’amore edifica» (1Cor 8:1), cioè fa crescere, sia chi ama sia chi è amato.

Vediamo come Paolo aveva messo in pratica questo insegnamento, circoncidendo Timoteo. In Atti 15 è riportata la “liberazione dalla circoncisione” per i Gentili. Era stato infatti chiarito che non si doveva essere circoncisi per essere salvati, né farlo dopo essere stati salvati se non lo si era già. Timoteo aveva la madre ebrea, ma il padre era greco e per questo non era stato circonciso. Dopo questo, in Atti 16:1-3, è raccontato che Paolo lo circoncise, perché sarebbe stato più facile essere ascoltati dai circoncisi, ai quali stavano andando per predicare il Vangelo. Metteva così in pratica il farsi debole coi deboli per guadagnarli.

La società ci spinge a curare i diritti e non è sbagliato; dovremmo però prima imparare a praticare i nostri doveri. Perché la grandezza di un uomo si vede dai doveri di cui si fa carico. È bene dunque sviluppare il nostro senso del dovere, ma non per orgoglio, bensì con amore.

Approfondimento n. 12

TRINITÀ: CHIARA SULLA CARTA, CONFUSA NELLA PRATICA

A.Introduzione.

Vediamo ora l’inciso di Paolo sulla Trinità che abbiamo saltato e che è presente in 1Corini 8:5-6, dov’è scritto: «Poiché, sebbene vi siano cosiddetti dèi sia in cielo sia in terra, come infatti ci sono molti dèi e molti signori, tuttavia per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi viviamo per lui, e un solo Signore, Gesù Messia, mediante il quale sono tutte le cose e mediante il quale anche noi siamo».

In questi versetti Paolo parla di Dio Padre e del Signore Gesù, distinguendoli in modo netto, ma non per tutti chiaro. Essendo una questione di grande rilevanza, abbiamo deciso di dedicarle un approfondimento. Su questo tema abbiamo riflettuto anche nel Dialogo 1 par. 5 e nel Dialogo 3 par. E. Inoltre, Fernando De Angelis ci ha scritto dei file, riuniti in un “Dossier Trinità”, che può esserci richiesto via email.

B.La dottrina ufficiale della cristianità.

La dottrina ufficiale sulla Trinità, accolta dalla generalità dei cristiani, è stata definita da Tertulliano alla fine del II secolo, quindi più di cent’anni prima di Costantino e Agostino, che hanno poi rimescolato un po’ le carte. Tertulliano afferma che il Nuovo Testamento ci presenta tre persone distinte, le quali condividono la stessa natura divina. Con questa dottrina ci troviamo d’accordo. D’altronde, dire che Gesù è il figlio di Dio significa che Gesù ha la stessa natura di Dio, come noi abbiamo la stessa natura umana dei nostri genitori e un cucciolo ha la stessa natura di chi lo ha generato.

C.La Trinità nel Nuovo Testamento.

Il Nuovo Testamento mostra che il Padre e il Figlio sono due persone distinte e lo saranno per l’eternità. Infatti, in Apocalisse troviamo che Gesù ha ancora i segni della crocifissione (Apo 5:6); inoltre, egli è vicino al trono del Padre e l’adorazione viene rivolta distintamente all’uno e all’altro (Apo 5:12-13). Per Gesù l’incarnazione non è stata un ballo in maschera alla fine del quale uno si rimette i propri vestiti. Gesù non ha mai smesso di essere uomo, il Figlio di Dio si è incarnato per l’eternità e quindi la distinzione fra lui e il Padre resta per sempre. La distinzione fra Gesù e il Padre c’era però anche prima dell’incarnazione. In Giovanni 17:5 Gesù dice: «Ora, o Padre, glorificami tu presso di te della gloria che avevo presso di te prima che il mondo esistesse». Perciò anche prima dell’incarnazione Gesù non era la stessa persona col Padre.

È importante non svalutare l’incarnazione di Gesù, visto che Giovanni ci dice che a negarla è lo spirito dell’anticristo (1Gio 4:2-3). Uno dei modi per svalutarla è quello di considerarla una finta, pensando: «Gesù sembrava un uomo, ma in fondo non poteva essere davvero un uomo, perché anche quando sembrava un uomo in realtà era Dio». Il tema dell’incarnazione, dunque, non va preso alla leggera.

Nelle Lettere del Nuovo Testamento, nelle quali gli apostoli si rivolgono a credenti, la regola è che per “Dio” si intende il Padre e per “Signore” si intende Gesù il Messia. In Atti, invece, quando gli apostoli si rivolgono ai pagani, a volte per Signore intendono Dio Padre e altre volte Gesù, lasciando il discorso talvolta poco chiaro. Tra i credenti di oggi il modo più usato è quello che troviamo in Atti, ossia quello fra non credenti, anziché quello che troviamo nelle Lettere degli apostoli. Quando infatti un credente dice «Signore» non si sa bene a chi si riferisca. Un modo per non confondere il Padre e il Figlio potrebbe essere quello di dire “Signore Gesù”.

Quando Paolo scrive che «c’è un solo Dio, il Padre» (1Cor 8:6), riafferma il monoteismo, che resta tale perché le altre entità sono subordinate a uno solo. È lo stesso Gesù a dire: «Il Padre è maggiore di me» (Giov 14:28). Nel politeismo, invece, ci sono più dèi che si contendono il primato.

Dunque, il Nuovo Testamento insegna che fra Gesù e il Padre c’è una unità di natura, insieme ad una distinzione di persona. In 1Corinzi 8:6 Paolo scrive: «Un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi viviamo per lui, e un solo Signore, Gesù Messia, mediante il quale sono tutte le cose e mediante il quale anche noi siamo». La nostra vita proviene dal Padre e dal Figlio, e in loro si mantiene e trova significato. In Giovanni 1:3 vediamo confermato che ogni cosa è stata fatta per mezzo di Gesù, che è distinto dal Padre, ma è uno col Padre nella potenza e nell’avere la stessa natura divina. La controprova si ha quando i venti e il mare obbedirono al comando di Gesù, che fermò la tempesta. In quella circostanza i discepoli capirono subito che Gesù doveva essere un uomo particolare e si chiesero: «Che uomo è mai questo che anche i venti e il mare gli ubbidiscono?» (Mat 8:26-27). Infatti, per farsi ubbidire dal vento bisogna avere la natura di Dio.