Alessia Lanini

DA ADAMO AGLI APOSTOLI

Una panoramica di tutta la Bibbia basata sul testoin sé

Volume (da definire)

Scuola elementare di cristianesimo

Dialoghi sulla prima lettera di Paolo ai Corinzi, condotti da Fernando De Angelis

BOZZA 1 DEI DIALOGHI 24-25

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Approfondimento n. 13. I molti equivoci sulla cena del Signore   A.Introduzione    
B.Presupposti dal Vangelo di Matteo 
B1.Presupposto n.1: Il battesimo, un rito ebraico in vista del regno dei cieli  
B2.Presupposto n.2: La Chiesa nasce come scuola di ebraismo
B3.Presupposto n.3: Gesù ha operato all’interno dell’ebraismo
C.Presupposti dagli Atti degli Apostoli      
C1.Presupposto n.4: Prima di Atti 10 venivano battezzati solo i circoncisi C2.Presupposto n.5: Si può essere di religione ebraica senza essere di razza ebraica    
C3.Presupposto n.6: Non c’è incompatibilità teologica fra Gesù e l’ebraismo C4.Presupposto n.7: Prima di Atti 18 non ci sono assemblee domenicali di battezzati
C5.Presupposto n.8: La prima assemblea cristiana si ha a Corinto e dopo a Efeso
D.Altri presupposti importanti
D1.Presupposto n.9: Paolo aveva un dialogo continuo con Gesù D2.Presupposto n.10: Tutte le parole di Paolo sono in sintonia con il pensiero di Gesù
D3.Presupposto n.11: A Corinto Paolo è stato incoraggiato da Gesù in modo speciale
D4.Presupposto n.12: L’Ultima Cena fu una consueta cena ebraica   D5.Presupposto n.13: Pietro non ha iniziato subito il culto cristiano    D6.Presupposto n.14: La Cena del Signore è un adattamento dell’Ultima Cena
1Corinzi 11:23-26
1.L’istituzione della Cena del Signore avviene a Corinto (11:23-26) 

Dialogo 24

Approfondimento n. 13

PRESUPPOSTI NECESSARI PER COMPRENDERE LA CENA DEL SIGNORE

A.Introduzione.

Prima di proseguire con il capitolo 12 e per una corretta comprensione della cena del Signore, riteniamo necessario definire 14 presupposti. I primi 8 li consideriamo essenziali: 3 sono ricavati dal Vangelo di Matteo e 5 dagli Atti. Ne riporteremo poi altri 6, che riteniamo comunque importanti.

Sugli argomenti che affronteremo abbiamo già anticipato qualcosa nel Dialogo 1, paragrafo 3. Fernando ci si è anche soffermato nei suoi articoli intitolati Paolo e Gesù, disponibili sul suo sito, in particolare nel 3A ai paragrafi 5-6. Mentre sui passi del Vangelo di Matteo e degli Atti, ci sono due suoi libri (Il Vangelo di Matteo alla luce dell’Antico Testamento; Ritornare al Vangelo di Pietro e Paolo, note agli Atti degli apostoli). Desideriamo rendere comprensibile l’esposizione, comunque, anche per chi non conosce i soprastanti scritti.

I Vangeli e gli Atti vengono prima della 1Corinzi, perciò bisognerebbe averli già compresi bene, specie il Vangelo di Matteo. Perché è il testo che più si sofferma sul collegamento di Gesù con l’Antico Testamento, risultando indispensabile per comprenderne correttamente il rapporto. Gli Atti, invece, devono essere compresi bene per vedere il contesto di nascita della Chiesa e le fasi che ha poi attraversato.

B.Presupposti dal Vangelo di Matteo.

B1.Presupposto n. 1: Il battesimo, un rito ebraico in vista del regno dei cieli.

Oggi il battesimo è il rito di ingresso nella chiesa. Se invitiamo un ebreo a farlo, in sostanza lo invitiamo a uscire dalla sua religione per entrare in un’altra. In realtà il battesimo era un rito di purificazione ebraico, che consisteva nel lavarsi nell’acqua, come per esempio leggiamo in Levitico 15:11: «Dovrà lavarsi le vesti, lavare se stesso nell’acqua e sarà impuro fino a sera».

Il battesimo non lo inizia a praticare Gesù, ma il Battista (Mat 3:1-11), il quale lo associa al ravvedimento e lo vede come preparazione al regno dei cieli che sta arrivando. Questo regno era quello annunciato da Daniele e che sarebbe venuto dopo quattro imperi pagani. In questo quinto regno non ci sarebbero stati i malvagi, ma solo “i santi” (Dan 7:13-14; 7:26-27). Anche i tempi annunciati da Daniele (70 settimane, che rappresentano 490 anni, Dan 9:24) coincidevano con il tempo della predicazione del Battista. Definendosi ripetutamente “Figlio dell’uomo” (per esempio, Mat 8:20), Gesù affermò di essere quel re universale ed eterno annunciato in Daniele 7:13-14.

Il battesimo, pertanto, non nasce come l’ingresso in una nuova religione, ma l’attendere il compimento di una promessa di Dio ad Israele. Con esso, insomma, non si esce dal contesto ebraico. Gesù iniziò la sua predicazione associandosi a Giovanni Battista, annunciando e facendo annunciare lo stesso messaggio: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mat 3:2; 4:17; 10:7). Anche nel battezzare Gesù agì inizialmente in parallelo con Giovanni (Mat 3:6; Giov 3:22-23; 4:1-2).

È chiaro come Matteo 3:5-12 associ il messaggio di Giovanni Battista al quinto regno di Daniele: «Gerusalemme, tutta la Giudea e tutto il paese intorno al Giordano accorrevano a lui [Giovanni]; ed erano battezzati da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Ma vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire l’ira futura? Fate dunque dei frutti degni del ravvedimento. Non pensate di dire dentro di voi: ‘Abbiamo per padre Abraamo’; perché io vi dico che da queste pietre Dio può far sorgere dei figli ad Abraamo. Ormai la scure è posta alla radice degli alberi; ogni albero dunque che non fa buon frutto, viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo con acqua, in vista del ravvedimento; ma colui che viene dopo di me è più forte di me, e io non sono degno di portargli i calzari; egli vi battezzerà con lo Spirito Santo e con il fuoco. Egli ha il suo ventilabro in mano, ripulirà interamente la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con fuoco inestinguibile”». Per Giovanni Battista il battesimo non era un rito magico che produceva effetti spirituali, ma doveva essere connesso a frutti degni del ravvedimento, altrimenti non contava niente. Ciò che contava non era il gesto in sé, ma la sostanza che rappresentava, ovvero il ravvedimento. Secondo lo schema dei riti ebraici, che sono forme associate a una sostanza, senza la quale non hanno senso.

B2.Presupposto n. 2: La Chiesa nasce come scuola di ebraismo.

Generalmente per chiesa si intende l’edificio, diverso dalla sinagoga, dove si ritrovano i cristiani. I più raffinati precisano che la chiesa sono le persone che credono in Gesù, ma anche in questo caso continua ad essere qualcosa di diverso dalla sinagoga e dall’ebraismo. “Chiesa”, però, è un termine analogo a “sinagoga” e significa “assemblea” (“ecclesia”, in greco). Veniva usato anche per indicare una assemblea senza alcuna connotazione religiosa.

In Matteo 16:18 troviamo che Gesù disse: «Edificherò la mia chiesa». Un cristiano tende a ritenere che la edificherà come entità separata dalla sinagoga, facendo una cosa nuova e istituendo una religione tutta sua. Questo però non ha fondamento, perché dal contesto è chiaro che Gesù intende che svilupperà l’assemblea “dei suoi discepoli”, dato che aveva sostanzialmente fondato una scuola di ebraismo. Gesù concepisce il suo come un movimento di rinnovamento interno all’ebraismo e questo lo si può ricavare da passi come Matteo 9:14, dov’’è scritto: «Allora si avvicinarono a lui i discepoli di Giovanni e gli dissero: “Perché noi e i farisei digiuniamo, e i tuoi discepoli non digiunano?”». Troviamo dunque i discepoli di Giovanni e quelli di Gesù, che non appartenevano a due religioni diverse, ma erano discepoli di due rabbi diversi. In Luca 11:1 vediamo poi che uno dei discepoli disse a Gesù: «Signore, insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ogni scuola aveva quindi le sue particolarità, ma erano comunque sempre interne all’ebraismo.

B3.Presupposto n. 3: Gesù ha operato all’interno dell’ebraismo.

L’operare di Gesù all’interno dell’ebraismo si può vedere, ad esempio, in Matteo 15:24, dove disse: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele». Come già aveva detto ai Dodici: «Non andate tra i pagani e non entrate in nessuna città dei Samaritani, ma andate piuttosto verso le pecore perdute della casa d’Israele» (Mat 10:5-6).

I Vangeli sono tutti interni all’ambiente ebraico, pertanto non è corretta l’idea cristiana di un Gesù che arriva e trasforma il messaggio da settario a universale. Gesù non si aprì al mondo uscendo da un ebraismo chiuso, ma il suo messaggio era universale perché l’ebraismo lo era. Nel Samo 117:1 è scritto: «Lodate Javè, voi nazioni tutte! Celebratelo, voi tutti i popoli!». Nella sua preghiera per la consacrazione del Tempio, Salomone disse: «Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, quando verrà da un paese lontano a causa del tuo nome, perché si udrà parlare del tuo gran nome, della tua mano potente e del tuo braccio disteso, quando verrà a pregarti in questa casa, tu esaudiscilo dal cielo, dal luogo della tua dimora, e concedi a questo straniero tutto quello che ti domanderà, affinché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome per temerti, come fa il tuo popolo Israele, e sappiano che il tuo nome è invocato su questa casa che io ho costruita!» (1Re 8:41-43). Al Tempio, dunque, poteva andare gente di ogni nazione, al punto che in Atti 2:5 troviamo che, in occasione della Pasqua ebraica, «a Gerusalemme soggiornavano dei Giudei, uomini religiosi di ogni nazione che è sotto il cielo».

In Giovanni 18:20 è riportato che Gesù disse: «Io ho parlato apertamente al mondo; ho sempre insegnato nelle sinagoghe e nel tempio, dove tutti i Giudei si radunano; e non ho detto nulla in segreto». Gesù era un rabbi che frequentava ambienti ebraici e insegnava dove i rabbi ebraici insegnavano. Egli non voleva fondare una nuova religione, ma riformare e purificare l’ebraismo del suo tempo.

C.Presupposti dagli Atti degli Apostoli.

C1.Presupposto n.  4: Prima di Atti 10 venivano battezzati solo i circoncisi.

È noto che Cornelio sia stato il primo non circonciso a essere stato battezzato (Atti 10:47-48). Molti però poi se lo dimenticano e suppongono che non tutti i tremila battezzati di Atti 2:41 fossero circoncisi. Questa contraddizione viene dai più mantenuta, perché c’è ormai una tradizione consolidata, dalla quale è difficile uscire.

Dopo aver battezzato Cornelio, Pietro dovette giustificarsi per ciò che aveva fatto (Atti 11:1-18). Questo conferma che, prima di Cornelio, per entrare a far parte dei discepoli di Gesù, bisognava essere ebrei e, quindi, circoncisi. In Atti 15:1 troviamo che «alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli, dicendo: “Se voi non siete circoncisi secondo il rito di Mosè, non potete essere salvati”». Ciò mostra quanto era strano che fossero battezzati i non circoncisi. Il problema era complesso e fu risolto dagli apostoli insieme alla chiesa, in un noto incontro a Gerusalemme (Atti 15). Per noi sembra una questione irrilevante e anche strana, ma per loro non era così e avevano come argomentazione il fatto che, fino ad allora, sia Gesù che gli apostoli, avevano battezzato solo i circoncisi. La decisione presa rappresentò una svolta e al v. 28 troviamo che mandarono a dire ai fratelli in Gesù provenienti dal paganesimo: «È parso bene allo Spirito Santo e a noi di non imporvi altro peso all’infuori di queste cose, che sono necessarie: astenervi dalle carni sacrificate agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla fornicazione; da queste cose farete bene a guardarvi».

I Gentili che si battezzavano, di conseguenza, non avevano l’obbligo di circoncidersi, mentre gli Ebrei continuavano a circoncidersi come al solito, essendo necessario per appartenere alla nazione. Molti affermano che in Atti 15 viene abolita la circoncisione, ma che ciò sia falso lo dimostra il fatto che poi sarà Paolo stesso a circoncidere Timoteo (Atti 16:1-3). 

C2.Presupposto n. 5: Si può essere di religione ebraica senza essere di razza ebraica.

In Atti 2:5 è detto che «a Gerusalemme soggiornavano dei Giudei, uomini religiosi di ogni nazione che è sotto il cielo». Quel giorno tremila di loro furono battezzati (v. 41). È evidente che non fossero tutti di razza ebraica, ma fossero comunque tutti circoncisi in quanto di religione ebraica. Infatti, si poteva entrare a fare pienamente parte del popolo del Dio di Israele circoncidendosi (Eso 12:48), qualunque fosse la nazionalità di nascita.

Si poteva comunque essere adoratori del Dio di Israele anche senza farsi circoncidere. Tra i molti, un esempio lo abbiamo in Naaman il Siro (2Re 5) e anche nei Niniviti (Giona 3:5-10).

Questo conferma che il Dio dell’Antico Testamento non era razzista, perché si è sempre relazionato con ogni uomo. Aveva stabilito un rapporto speciale con la nazione di Israele, non per privilegiarla, ma per farla essere uno strumento di benedizione per tutti.

C3.Presupposto n. 6: Non c’è incompatibilità teologica fra Gesù e l’ebraismo.

Molti dicono: «Nell’ebraismo era in un certo modo, ma poi nel cristianesimo è diverso. Nell’Antico Testamento le cose erano così, ma poi nel Nuovo cambia tutto». Questo schema di contrasto è profondamente radicato, ma fra Gesù e l’ebraismo non c’era alcun contrasto di tipo teologico. I contrasti riguardavano certe diffuse interpretazioni, non l’ebraismo in sé.

In Atti 2:46 vediamo che tutti i credenti in Gesù «ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio». Di questo se ne trova conferma anche in Atti 3:1, 5:21 e 5:42. Qualcuno dice: «È vero che andavano al Tempio, ma per dire che il Tempio non contava più niente». Questa è però un’assurdità, perché se fossero andati al Tempio per dire di abbandonarlo, li avrebbero come minimo cacciati via. Mentre in Atti 2:47 troviamo che i credenti in Gesù avevano il favore di tutto il popolo. Ciò significa che la predicazione di Pietro a Gerusalemme fu largamente accolta e apprezzata anche da coloro che continuarono a non riconoscere in Gesù il Messia. Questo lo si vede anche in Atti 4:21, 5:13 e 5:26.

C’è poi un passo che costituisce una dimostrazione lampante del fatto che non ci fosse un’incompatibilità teologica tra Gesù e l’ebraismo. Si trova nella parte finale degli Atti e riporta ciò che disse la chiesa di Gerusalemme a Paolo: «Fratello, tu vedi quante migliaia di Giudei hanno creduto; e tutti sono zelanti per la legge. Ora sono stati informati su di te che vai insegnando a tutti i Giudei sparsi tra i pagani ad abbandonare Mosè, e dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non conformarsi più ai riti. E allora? Sicuramente verranno a sapere che tu sei venuto. Fa’ dunque quello che ti diciamo: noi abbiamo quattro uomini che hanno fatto un voto; prendili con te, purificati con loro e paga le spese per loro affinché possano radersi il capo; così tutti conosceranno che non c’è niente di vero nelle informazioni che hanno ricevute sul tuo conto; ma che tu pure osservi la legge» (Atti 21:20-24).

Contro Paolo girava l’accusa di invitare i Giudei a non circoncidere più i figli e a non attenersi più alla legge mosaica. Gli apostoli e gli anziani di Gerusalemme affermarono che in tale accusa «non c’è niente di vero» (v. 24). Molti cristiani però direbbero che quell’accusa era vera, perché ritengono che Paolo abbia insegnato agli Ebrei credenti in Gesù a non circoncidere più i figli, mentre l’insegnamento di Paolo e degli altri apostoli riguardava i Gentili credenti, che non erano più obbligati a circoncidersi, in conformità alle decisioni prese in Atti 15.

Qualcuno, per giustificare il rito di Atti 21:23-24, dice: «Paolo l’ha fatto perché lui si faceva Giudeo con i Giudei e Gentile con i Gentili, com’è scritto in 1Corinzi 9:20». Paolo però non si faceva idolatra con gli idolatri, non si sintonizzava con chi faceva cose sbagliate. Si sintonizzava su ciò che era comunque giusto. Pertanto, non riteneva sbagliato continuare a osservare la legge in quanto Giudeo.

In Atti 21:20 viene poi detto che «migliaia di Giudei hanno creduto; e tutti sono zelanti per la legge». Significa che quando un Giudeo accettava Gesù come Messia non abbandonava la legge di Mosè, anzi essa acquistava più significato. L’anno successivo alla crocifissione non è che per i discepoli di Gesù la Pasqua non contasse più nulla. Anzi, la percepivano con un’intensità mai vissuta prima. Un Gentile che accettava Gesù non era obbligato a celebrare la Pasqua, ma per i Giudei l’agnello che veniva ucciso e il pane spezzato acquisivano un significato ancora più profondo dopo la venuta di Gesù. Questo passo di Atti 21:20-24 è necessariamente stravolto dalla cristianità, perché sconfessa i presupposti sbagliati sui quali si basa.

Il fatto che Paolo si volle mantenere interno all’ebraismo lo possiamo vedere anche in Atti 25:8, dove Paolo affermò in sua difesa: «Io non ho peccato né contro la legge dei Giudei, né contro il tempio, né contro Cesare». Paolo non dice: «Io sono uscito dall’ebraismo ed ho le mie giustificazioni per dire cose controverse». Questo concetto è ripetuto anche alla fine di Atti, quando Paolo convocò i notabili fra i Giudei di Roma e disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il popolo né contro i riti dei padri, fui arrestato a Gerusalemme e di là consegnato in mano ai Romani» (28:17).

C4.Presupposto n. 7: Prima di Atti 18 non ci sono assemblee domenicali di battezzati.

Sembra incredibile, eppure prima di Atti 18 non troviamo alcuna costituzione formale di una chiesa, intesa come assemblea di tutti i credenti in Gesù di un dato luogo. Prima di Atti 18, infatti, i credenti in Gesù partecipavano alle riunioni della sinagoga, come aveva fatto Gesù. Si potrebbe pensare che un cristiano andasse in sinagoga per invitare ad uscirne, ma se fosse stato così, avrebbe potuto farlo una sola volta. Troviamo invece che Paolo frequentò la sinagoga di Efeso per tre mesi (Atti 19:8). A Tessalonica ci andò per tre sabati consecutivi (Atti 17:2) e a Corinto «ogni sabato» (Atti 18:4). L’apostolo Paolo annunciava che il Messia, il Figlio di Davide, era arrivato ed era Gesù. Li invitava ad accoglierlo, facendo un passo avanti nella loro fede, restando Ebrei osservanti e membri della sinagoga.

Ci sono due versetti che vengono presi come dimostrazione che i credenti in Gesù si incontrassero la domenica, ma in realtà sono equivocati. Il primo è Atti 20:7, dov’è scritto: «Il primo giorno della settimana, mentre eravamo riuniti per spezzare il pane, Paolo, dovendo partire il giorno seguente, parlava ai discepoli, e prolungò il discorso fino a mezzanotte». Per gli ebrei l’ultimo giorno della settimana è il sabato e il seguente è perciò il primo. Il punto è che per loro il sabato finiva al tramonto, quando c’era l’incontro di chiusura del giorno di riposo, come ancora oggi fanno. Così fece Paolo e la dimostrazione ne è il fatto che l’incontro si protrasse oltre mezzanotte, perciò era cominciato di sera e non di mattina. Erano «riuniti per spezzare il pane», ossia per mangiare insieme. Questo modo di dire deriva da un’altra tradizione ebraica, anch’essa ancora in uso, consistente nell’iniziare il pasto di chiusura del sabato rompendo il pane. Pertanto, non stava a indicare la cena del Signore, che in 1Corinzi 11:18 Paolo introduce dicendo: «Quando vi riunite in assemblea». Il gesto di rottura del pane lo si trova anche in Atti 2:46, dove si incontravano a piccoli gruppi nelle case e mangiavano insieme, ma ciò non era la stessa cosa di quando si ritrovavano in assemblea, che per loro restava quella del sabato in sinagoga. D’altronde, i tremila battezzati di Atti 2:41 non potevano riunirsi in una casa. Su questo contiamo di tornarci quando affronteremo il capitolo 11, volendo ora sottolineare solo che in Atti 20:7 non ci fu quell’incontro domenicale divenuto poi abituale.

Il secondo versetto che viene equivocato è 1Corinzi 16:2: «Ogni primo giorno della settimana ciascuno di voi, a casa, metta da parte quello che potrà secondo la prosperità concessagli, affinché, quando verrò, non ci siano più collette da fare». A molti sembra chiaro che il primo giorno della settimana uno mettesse da parte l’offerta, poi andava al culto e la metteva nella cassetta comune, ma non è così. Infatti, qui è scritto «a casa, metta da parte» e «quando verrò». Ognuno, quindi, avrebbe messo da parte ciò che poteva e poi quando Paolo fosse andato da loro, gli avrebbero consegnato quanto accantonato. Paolo poi parlò di farlo «a casa», quindi non si riferisce al culto cristiano.

Per quanto riguarda il mettere da parte l’offerta il primo giorno della settimana, abbiamo ricevuto una spiegazione per noi convincente. Se uno stabilisce all’inizio ciò che spenderà durante la settimana, non offrirà al Signore ciò che gli avanza alla fine (sabato), perché nell’Antico Testamento si ribadisce più volte che a Dio spetta la primizia (per esempio, Eso 34:26). Per questo l’offerta per l’opera di Dio doveva essere messa da parte all’inizio della settimana.

C5.Presupposto n. 8: La prima assemblea cristiana si ha a Corinto e dopo a Efeso.

Non ci dilunghiamo sul fatto che i cristiani facessero l’incontro settimanale il sabato, essendo detto nei dieci comandamenti di riposarsi il settimo giorno (Eso 20:10), che è il sabato e non la domenica. La domenica è un’invenzione puramente cristiana, fatta per distinguersi e contrapporsi all’ebraismo, negando implicitamente l’ebraicità di Gesù.

In Atti 18:4-7 è riportato quanto accadde a Corinto: «Ma ogni sabato [Paolo] insegnava nella sinagoga e persuadeva Giudei e Greci. Quando poi Sila e Timoteo giunsero dalla Macedonia, Paolo si dedicò completamente alla Parola, testimoniando ai Giudei che Gesù era il Messia. Ma poiché essi facevano opposizione e lo insultavano, egli scosse le sue vesti e disse loro: “Il vostro sangue ricada sul vostro capo; io ne sono netto; da ora in poi andrò dai pagani”. E, uscito di là, entrò in casa di un tale chiamato Tizio Giusto, che temeva Dio e aveva la casa attigua alla sinagoga». Questo passo costituisce il certificato di nascita della Chiesa, nel suo essere un’assemblea separata dalla sinagoga. Vediamo però che Paolo non fa un incontro separato dalla sinagoga a causa di un’incompatibilità teologica, ma perché lui e gli altri erano stati cacciati da coloro che non avevano accettato Gesù come Messia. Paolo si ritrovò costretto a separare i seguaci di Gesù dal resto dei Giudei, ovviamente continuando a fare l’incontro il sabato. A quel punto, essendoci solo credenti in Gesù, non era opportuno che l’incontro fosse identico a quello sinagogale. Divenne così cristocentrico, cioè incentrato sul ricordare Gesù e il suo sacrificio. Questa decisione Paolo non la prese da sé, ma come vedremo più avanti, gli fu ispirata dal Signore Gesù (1Cor 11:23). Non è un caso, dunque, che nella 1Corinzi troviamo un concentrato di istruzioni per il culto ed estesi chiarimenti su cosa rappresenta la Chiesa, dato che proprio a Corinto si è formalizzata la Chiesa per la prima volta.

Paolo va poi a Efeso e anche lì accade qualcosa di simile. Non a caso anche in questa lettera troviamo molto sulla Chiesa come corpo del Messia. Ad Efeso, Paolo entrò nella sinagoga «e qui parlò con molta franchezza per tre mesi, esponendo con discorsi persuasivi le cose relative al regno di Dio. Ma siccome alcuni si ostinavano e rifiutavano di credere dicendo male della Via in presenza della folla, egli, ritiratosi da loro, separò i discepoli e insegnava ogni giorno nella scuola di Tiranno» (Atti 19:8-9). Mentre a Corinto si erano provvisoriamente arrangiati nella casa di uno che viveva vicino alla sinagoga, qui troviamo che andarono in un locale pubblico. D’altronde, dovevano accogliere tutti e saranno stati tanti, dopo aver predicato per tre mesi, perciò non potevano essere messi in una casa. Anche qui, la causa non era l’incompatibilità teologica con i Giudei, ma il non essere tollerati da una maggioranza che non accettava Gesù come Messia.

È inevitabile chiedersi in che giorno i cristiani dovrebbero riunirsi oggi. In Romani 14:5 è scritto che alcuni ritenevano certi giorni come speciali, mentre altri non facevano differenza fra i vari giorni. Per Paolo erano accettabili ambedue i modi. Oggi ci sono credenti in Gesù in varie parti del mondo che si riuniscono in un giorno oppure nell’altro, per via di specifiche necessità o del contesto culturale. I cristiani non sono vincolati a un giorno specifico e senz’altro possiamo riunirci la domenica, ma non spacciando questo come l’osservanza di uno dei dieci comandamenti. Perché lì è indicato il settimo giorno, cioè il sabato (Eso 20:8:11), le cui caratteristiche non sono le stesse della nostra domenica.

D.Altri presupposti importanti

D1.Presupposto n. 9: Paolo aveva un dialogo continuo con Gesù.

Paolo aveva acquisito una eccellente conoscenza dell’Antico Testamento alla scuola del grande Gamaliele (Atti 22:3; cfr. 5:33-40). Dopo l’incontro con Gesù, ebbe subito contatto con vari credenti e poi anche con gli stessi apostoli (Atti 9:17-30). Dai suoi scritti si vede poi una chiara attitudine alla riflessione e allo studio. Tutto ciò ha evidentemente una sua importanza, ma la specificità e la rilevanza dell’opera di Paolo sono derivate soprattutto da una particolare vocazione rivoltagli da Gesù, che continuò ad apparirgli fino alla fine (Atti 18:9-10; 22:17-21; 23:11; cfr. 27:23-24; cfr. 2Cor 12:1-9).

Nel raccontare la sua conversione, Paolo riporta così la chiamata ricevuta da Gesù: «Per questo ti sono apparso: per farti ministro e testimone delle cose che hai viste, e di quelle per le quali ti apparirò ancora». Quella sulla via per Damasco (Atti 9), perciò, è stata solo la prima di una serie di apparizioni, attraverso le quali Paolo è stato guidato nel servizio affidatogli. Più che parlare dell’opera di Paolo, perciò, bisognerebbe parlare dell’opera di Gesù per mezzo di Paolo.

D2.Presupposto n. 10: Tutte le parole di Paolo sono in sintonia con il pensiero di Gesù.

Proprio nel concludere la 1 Corinzi, Paolo fa un’affermazione inequivocabile: «Le cose che io vi scrivo sono comandamenti del Signore» (14:37). Ciò che condivideva ai Corinzi non erano sue iniziative, ma proveniva dal Signore, che dal contesto è chiaro essere Gesù. Anche nei casi in cui prendeva sue iniziative, Paolo dice che era comunque in sintonia con Gesù. In 7:25 scrive: «Ma do il mio parere, come uno che ha ricevuto dal Signore la grazia di essere fedele».

D3.Presupposto n. 11: A Corinto Paolo è stato incoraggiato da Gesù in modo speciale.

Al paragrafo C5 abbiamo visto che quella di Corinto è la prima assemblea dei discepoli di Gesù. Questo rappresentò evidentemente uno sviluppo importante e Gesù incoraggiò Paolo con un messaggio speciale, proprio subito dopo che Paolo aveva scelto di fare un culto separato dalla sinagoga: «Una notte il Signore disse in visione a Paolo: “Non temere, ma continua a parlare e non tacere; perché io sono con te, e nessuno ti metterà le mani addosso per farti del male; perché io ho un popolo numeroso in questa città”. Ed egli rimase là un anno e sei mesi, insegnando tra di loro la Parola di Dio» (Atti 18:6-11).

D4.Presupposto n. 12: L’Ultima Cena fu una consueta cena ebraica.

Sebbene molti lo pensino, non è nell’Ultima Cena che Gesù istituisce la Cena del Signore. I Vangeli riportano che Gesù e gli Apostoli in quell’occasione fecero una normale cena pasquale ebraica. Senz’altro Gesù gli ha dato un significato aggiuntivo, ma la celebrò nei modi tradizionali e non istituì il culto cristiano.

Questo lo si può vedere andando alla descrizione di Luca 22:7-20: «Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva sacrificare la Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni, dicendo: “Andate a prepararci la cena pasquale, affinché la mangiamo”. Essi gli chiesero: “Dove vuoi che la prepariamo?” Ed egli rispose loro: “Quando sarete entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo nella casa dove egli entrerà. E dite al padrone di casa: ‘Il Maestro ti manda a dire: ‘Dov’è la stanza nella quale mangerò la Pasqua con i miei discepoli?’’ Ed egli vi mostrerà, al piano di sopra, una grande sala ammobiliata; qui apparecchiate”. Essi andarono e trovarono com’egli aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Quando giunse l’ora, egli si mise a tavola, e gli apostoli con lui. Egli disse loro: “Ho vivamente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire; poiché io vi dico che non la mangerò più, finché sia compiuta nel regno di Dio”. E, preso un calice, rese grazie e disse: “Prendete questo e distribuitelo fra di voi; perché io vi dico che ormai non berrò più del frutto della vigna, finché sia venuto il regno di Dio”. Poi prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi”».

Ci sono quelli che vorrebbero essere letteralisti, cioè attenersi strettamente al testo biblico. Poi però sono costretti a concentrarsi solo su qualche dettaglio, come l’uso di un solo calice dal quale bere tutti, oppure utilizzare dei bicchierini. A voler essere letteralisti, tante cose andrebbero fatte in modo diverso da come si fanno oggi nella Cena del Signore. Per esempio, l’Ultima Cena fu una vera cena fra amici, che arrivò fino all’alba; c’erano solo 11 discepoli e tutti maschi; fu una cena pasquale ebraica. Tutt’altro, insomma, di quel rito simbolico che si è soliti fare la domenica mattina, dopo il quale ognuno generalmente va a pranzo a casa propria.

D5.Presupposto n. 13: Pietro non ha iniziato subito il culto cristiano.

Pietro aveva ascoltato l’invito di Gesù: «Fate questo in memoria di me» (Luca 22:19). Eppure poi non ha organizzato un’assemblea in cui passassero un calice e prendessero tutti un pezzetto di pane. Anzi, i credenti «rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme», ovvero mangiavano insieme (Atti 2:46). Essendo in più di tremila, non si potevano riunire in una casa, ma c’era comunque una condivisione fraterna fra piccoli gruppi nelle varie case.

In conseguenza di quanto Gesù aveva detto nell’Ultima Cena, insomma, è evidente che Pietro non ha ritenuto di iniziare il culto cristiano, ma ha continuato la sua vita da ebreo credente nel Messia Gesù, vivendo all’interno dell’ebraismo, come Gesù gli aveva insegnato.

D6.Presupposto n. 14: La Cena del Signore è un adattamento dell’Ultima Cena.

Abbiamo accennato a quelli che vorrebbero essere letteralisti, pur essendo impossibile. Perché ciò che noi facciamo è necessariamente sempre un adattamento. Il primo adattamento è stato proprio Paolo a farlo, sotto la guida di Gesù. Chi perciò si vuole attenere letteralmente a ciò che Paolo insegna in 1Corinzi 11, cade in una contraddizione implicita. Per essere fedeli all’insegnamento che Paolo ha adattato per quelli di Corinto, bisognerebbe fare un adattamento di quelle istruzioni alle nostre circostanze di chiesa, guidati non dalle preferenze personali, ma dallo Spirito Santo.

Molti si rifiutano di ammettere che il culto cristiano sia un adattamento fatto in seguito per mezzo di Paolo, volendolo forzatamente far risalire tutto all’Ultima Cena a all’inizio degli Atti, perché non accettano che il cristianesimo sia frutto di un percorso storico, volendolo invece far cominciare dalla prima pagina del Vangelo, dove invece troviamo un Giovanni Battista che predicò in un contesto che poi subirà diversi cambiamenti.

Quando si insiste che Gesù usò un solo bicchiere e che così si deve fare, non si tiene conto che quello era un modo comune praticato in tutte le circostanze. L’Ultima Cena si inserì in un contesto normale di vita, perciò chi adotta la pratica del bicchiere unico in quel contesto, dovrebbe adottarla anche a casa. Rievocare l’Ultima Cena con una ritualità separata dalla vita quotidiana, significa concepire anche la fede come poco collegata con il vissuto.

Altri si considerano letteralisti facendo la Cena del Signore esclusivamente con il succo d’uva non fermentato. È però sostanzialmente impossibile che Gesù l’abbia fatto, perché il succo d’uva di per sé fermenta e diventa subito vino. Al tempo di Gesù non avevano le bottiglie sigillate e sterilizzate per impedire la fermentazione, perciò è del tutto evidente che Gesù usò il normale vino, anche se molti credenti anglofoni hanno difficoltà ad accettarlo, a causa di una cultura che considera l’alcool al pari della droga.

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1CORINZI 11:23-26

1. L’ISTITUZIONE DELLA CENA DEL SIGNORE AVVIENE A CORINTO (11:23-26)

«Poiché ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”» (11:23-26).

L’Ultima Cena fu un pasto di condivisione tra Gesù e gli Apostoli. In 1Corinzi 11 diventa invece una celebrazione di testimonianza. Paolo, infatti, scrive: «Voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (v. 26). Oggi le chiese cristiane hanno mantenuto questa tradizione, rievocando ogni volta la morte e la resurrezione di Gesù.

«Ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso» (v. 23). Paolo non dice che lo ha ricevuto da Pietro, perché non dà queste istruzioni sulla base di ciò che Pietro gli ha raccontato dell’Ultima Cena, bensì ciò che gli era pervenuto direttamente da Gesù. Inoltre, non è la prima volta che Paolo ne parla ai Corinzi, perché non dice «quello che vi sto trasmettendo», ma «quello che vi ho trasmesso». Paolo vuole dunque ricordare l’essenziale di quello che già aveva detto ai Corinzi, in modo da poterlo poi applicare.

Per comprendere lo scopo di Paolo, dobbiamo ricordare che il culto sinagogale prevedeva la lettura di Mosè e dei profeti e aveva tutto un suo ordine. Trovandosi ora insieme solo i discepoli di Gesù, non era opportuno fare tutto come prima, ma il culto andava adattato avendo al centro Gesù. Anche la rottura del pane era da adattare alla nuova situazione, ovvero all’esserci un’assemblea dei discepoli di Gesù di quella città in un unico luogo e non più piccoli gruppi nelle case. Ai versetti 25-26 troviamo due volte «ogni volta», che non significa “ogni giorno”. Infatti, Paolo scrive: «Quando vi riunite in assemblea» (v. 18). Era a questo momento che quindi si riferiva e non a quello del rompere il pane nelle case. Paolo fa qui un’applicazione al nuovo contesto, adattando una Ultima Cena che non è riproducibile. Ed è Gesù stesso a guidarlo in questo adattamento.

«Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue» (v. 25). Dicendo «nuovo patto», è implicito che ce ne fossero stati altri e infatti li troviamo in tutto l’Antico Testamento. I patti precedenti a Gesù erano stati fatti nel sangue che simboleggiava il suo. Come il sangue dell’agnello della Pasqua ebraica, che proteggeva dal giudizio di Dio, evidente simbolo di quello dell’Agnello Gesù. Tra il simbolo di Gesù e la realtà di Gesù c’è uno sviluppo, non un contrasto.

Tutti i più santi re e le migliori guide di Israele hanno solitamente promosso un patto di consacrazione a Dio guidando Israele nella santificazione. Tra questi troviamo Mosè (Eso 24:8), Asa (2Cro 15:10-15), Ioas e il suo reggente Ieoiada (2Cro 23:16-18), Ezechia (2Cro 29:10), Giosia (2Cro 34:31). Abbiamo anche Giosafat (2Cro 17-20) che, sebbene non fece un patto formale, condusse il popolo ad avere fiducia in Javè. Neemia, pur introducendo qualche distorsione su cui non ci dilunghiamo, imitò quei patti di santificazione (Neemia 9:38). Davide (1Cro 16) spronò il popolo a santificarsi e Salomone, all’inaugurazione del Tempio, coinvolse ed esortò il popolo a consacrarsi a Dio (1Re 8:65-66). Se tutti questi predecessori si comportarono così, poteva essere da meno Gesù?

Gesù ha fatto un patto migliore di quelli precedenti, ma efficace era anche il sangue degli agnelli, che simboleggiava quello di Gesù, perché il sangue di Gesù non ha avuto effetto solo dopo la sua morte. Nell’Antico Testamento, il sangue che a suo tempo avrebbe versato Gesù era efficace come la firma di una cambiale, che permette di avere subito del denaro sulla base di un impegno futuro, come Paolo insegna in Romani 3:25-26. Oltre che ad essere la realtà di ciò che era prima simboleggiato, il patto di Gesù non necessita come i precedenti di essere rinnovato, perché Gesù è risorto e vive in eterno.

Fra i patti che abbiamo citati, quello che troviamo più adatto a far comprendere Gesù è quello fatto da Asa: «Si unirono per giuramento a Javè con gran voce e con acclamazioni, al suono delle trombe e dei corni. Tutto Giuda si rallegrò di questo giuramento; perché avevano giurato di tutto cuore, avevano cercato Javè con grande ardore ed egli si era lasciato trovare da loro. E Javè diede loro pace lungo i confini» (2Cro 15:10-15). Come conseguenza del patto di santificazione, Javè diede loro pace. Come Gesù l’ha promessa a chi si rifugia in lui: «Vi lascio pace; vi do la mia pace» (Giov 14:27).