Sintesi dei dialoghi con F. De Angelis su Romani

DIALOGHI 2-3. IL VANGELO DI DIO PROMESSO (1:1-12)

di Christian Mancini

 

Il file dei Dialoghi 1-9 è scaricabile dall’articolo del Dialogo 9.

 

«Il vangelo di Dio, che egli aveva già promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sante Scritture» (1:1-2). Spesso l’Antico Testamento viene visto come un’ostrica contenente una perla, rappresentata dalle promesse che applichiamo a noi, mentre il guscio esterno si può buttare via. Lo sviluppo del piano di Dio non può però essere in contrasto con la sua opera precedente. Sarebbe assurdo sostenere che nell’Antico Testamento Dio avesse promesso che un giorno, nel Nuovo Testamento, sarebbe cambiato. Dio è sempre lo stesso, con il suo piano che si sviluppa internamente ad un progetto unico. Per fare un esempio, il grande mandato di Gesù di andare ad evangelizzare tutte le nazioni è sicuramente un nuovo tipo di missione, ma in perfetto accordo con l’opera di Dio precedente, come abbiamo visto nel Dialogo 1, con la diffusione delle sinagoghe.

«Nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, dichiarato Figlio di Dio con potenza» (1:3-4). Viene subito presentata la doppia natura di Gesù: umana in quanto discendente dalla stirpe di Davide e divina secondo lo Spirito. D’altronde per essere un mediatore efficace tra Dio e gli uomini, dovrà necessariamente essere in grado di rappresentare entrambe le nature, come un ponte che collega due sponde.

«Secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti; cioè Gesù Messia, nostro Signore» (1:4b). Certo che la risurrezione di Gesù sia la prova definitiva del suo essere Messia Figlio di Dio, ma è importante notare che questo avvenimento non sia in contrasto con l’Antico Testamento, ma che sia anzi interno alle «sante Scritture», che lo avevano promesso e adombrato. I discepoli, compresi gli apostoli, erano soliti non solo predicare la risurrezione, ma anche dimostrare con le Scritture che Gesù era il Messia, ad esempio Paolo, che «per tre sabati tenne loro ragionamenti tratti dalle Scritture, spiegando e dimostrando che il Messia doveva morire e risuscitare dai morti. “E il Messia”, egli diceva, “è quel Gesù che io vi annuncio”» (Atti 17:2-3). In particolar modo con gli amici Ebrei, sarebbe quindi opportuno non solo predicare le evidenze della risurrezione di Gesù, ma anche mostrare che egli è il Messia promesso dalle sante Scritture.

«Grazia a voi e pace da Dio nostro Padre, e dal Signore Gesù Messia» (1:7) Paolo, come in tutte le Lettere, usa un linguaggio trinitario chiaro, con “Dio” che indica il Padre e “Signore” che si riferisce a Gesù. In questa frase si vedono molto bene l’unità insieme alla diversità, poiché grazia e pace procedono sia dal Padre che dal Figlio, cioè da due persone diverse, ma in perfetto accordo e sintonia. Trovare scritto da Dio nostro Padre e da Abraamo, oppure e da Mosè, sarebbe stata una bestemmia, invece il fatto che il Signore venga accostato in questo modo al Padre lascia già intendere che non si tratti di una persona come tutte le altre. Parlare e comprendere la Trinità è ovviamente più semplice se fatto dopo l’incarnazione, dato che è il Figlio che si è fatto carne, non il Padre. Ma un Messia divinizzato era già contemplato dall’ebraismo del tempo di Gesù, non è stata un’invenzione del Nuovo Testamento. Ci sono infatti alcuni brani che facevano pensare ad un uomo divinizzato o ad un Dio umanizzato, come quello del Salmo 110, dove il Messia figlio di Davide viene fatto sedere alla destra di Javè e che Davide stesso chiama Signore.

«Infatti desidero vivamente vedervi per comunicarvi qualche dono, affinché siate fortificati; o meglio, perché quando sarò tra di voi ci confortiamo a vicenda mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (1:11-12). Nonostante tutti i carismi che Dio ha dato a Paolo, lui non si pone al di sopra degli altri fratelli. Quando qualcuno insegna ponendosi un gradino più in alto rispetto agli altri, insegna già qualcosa che non viene da Gesù, il quale “non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente” (Filippesi 2:6), ma si mostrò per primo come esempio di umiltà.