Alessia Lanini

DA ADAMO AGLI APOSTOLI

Una panoramica di tutta la Bibbia basata sul testoin sé

Volume (da definire)

Scuola elementare di cristianesimo

Dialoghi sulla prima lettera di Paolo ai Corinzi, condotti da Fernando De Angelis


BOZZA 1 DEL DIALOGO 22: 1CORINZI 10:1-33

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1. La struttura del capitolo 10      
2. Un esempio per comprendere l’ammonimento di Paolo    
3. Dio è ancora come ai tempi dell’Esodo (10:1-14)        
4. Attenzione all’idolatria perché Dio è geloso (10:14-22)     
5. Tenere conto della coscienza del prossimo (10:23-30)     
6. Tutto alla gloria di Dio e per l’utile dei molti (10:31-33)     

Dialogo 22

1CORINZI 10:1-33

1. LA STRUTTURA DEL CAPITOLO 10

Nel capitolo 10 Paolo riprende e sviluppa temi che per la maggior parte ha già affrontato.

Può essere suddiviso in 4 parti. Nella prima, costituita dai versetti 1-14, dopo aver messo in parallelo la chiesa con l’Israele dell’Esodo, Paolo fa un ammonimento: su questo ci soffermeremo in modo particolare.

Il versetto 14 lo consideriamo come un “versetto cerniera”, mettendolo sia nella prima parte sia nella seconda. Questo perché in esso troviamo il solito schema di Paolo, che riassume ciò che ha detto fino a quel punto, ma in un modo che faccia anche da titolo di ciò che sta per dire.

Nella seconda parte, dal versetto 14 al 22, viene contrapposta la cena del Signore agli idoli.

Nella terza parte, costituita dai versetti 23-30, viene ripreso il tema della libertà e dell’opportunità, parlando delle cose che si potevano fare liberamente, ma che non era sempre opportuno fare. Tema che abbiamo già affrontato ai paragrafi 5 e 6 del Dialogo 21.

Troviamo infine la quarta parte, nei versetti 31-33, nella quale Paolo riassume ciò che ha voluto dire. Questa conclusione è molto utile, perché in essa è l’autore stesso a trarre il succo del discorso, evitandoci di dover cercare di farlo noi in modo opinabile. La conclusione riguarda tutti i tre capitoli, ovvero 8, 9 e 10, che abbiamo già visto essere collegati fra loro nel paragrafo 1 del Dialogo 20.

2. UN ESEMPIO PER COMPRENDERE L’AMMONIMENTO DI PAOLO

Prima di affrontare l’ammonimento della prima parte, riportiamo una storiella. Un italiano andò a trovare un amico in un paese estero. Arrivato con la macchina, chiese all’amico: «Come devo fare per parcheggiare?». L’amico gli rispose: «Non ti preoccupare. Qui non c’è la polizia municipale come in Italia, che ti fa le multe per divieto di sosta. Qui siamo nella libertà e nell’amore. Stai tranquillo e metti la macchina dove vuoi». L’italiano pensò che fosse una bella realtà e quasi quasi ci si sarebbe trasferito. Parcheggiò in divieto di sosta, senza farsi tanti pensieri. Dopo un paio d’ore si affacciò dalla finestra e vide che sulla macchina c’era la multa. Chiese spiegazioni all’amico, il quale rispose che non era possibile, ma quando vide anche lui la multa, gli disse: «Qui è vero che non fanno le multe, però c’è un tipo strano e malvagio che va in giro e le fa». L’italiano gli chiese se andasse comunque pagata e l’amico, con tono sommesso, rispose: «Eh, sì. Bisogna pagarle, sennò quel malvagio ci fa passare dei guai». L’italiano allora pensò: «Meglio la nostra polizia municipale!».

Molti dicono: «Siamo nel tempo della grazia. Dio non punisce più. Dio ora è tutta dolcezza. Non siamo mica ai tempi dell’Esodo, della legge di Mosè. Basta confessare di essere peccatori, poi non importa ciò che facciamo».  Questo incoraggia a non essere vigili su se stessi, ma le conseguenze di un comportamento scorretto poi arrivano. Allora uno va a chiedere il perché e la risposta che riceve è del tipo: «Dio è tutta dolcezza e non punisce più, ma purtroppo c’è il principe di questo mondo, quel malvagio, che va in giro per disturbare la nostra tranquillità».

Queste costruzioni teologiche fantasiose, fatte per il piacere di illudersi, Paolo le abbatte fin dal primo versetto, dove precisa che si sta rivolgendo ai «fratelli», quindi ai credenti in Gesù.

3. DIO È ANCORA COME AI TEMPI DELL’ESODO (10:1-14)

«Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, passarono tutti attraverso il mare» (10:1).

Come abbiamo detto, Paolo si rivolge a «fratelli» in Gesù. Subito dopo scrive «i nostri padri», quindi quelli di cui sta per parlare non erano solo i padri degli Ebrei dell’Esodo, disordinati e disobbedienti, ma anche della chiesa, che non piove dal cielo, ma nasce dallo sviluppo di quella stessa storia. Perciò, erano «padri» anche dei credenti di nazionalità greca!

D’altronde per Paolo esistono tre categorie di persone e lo vediamo quando dice: «Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla chiesa di Dio» (10:32). Considera due gruppi diversi di non credenti, Giudei e Greci, e poi c’è il gruppo della chiesa di Dio, costituita sia da Giudei sia da Greci che hanno riconosciuto in Gesù il Messia d’Israele.

Leggere l’Esodo è facile quando ci si immedesima con Giosuè o Caleb, che non subirono punizioni. Diventa più difficile quando ci accorgiamo che la massa che morì nel deserto sono «i nostri padri», ai quali assomigliamo, chi più e chi meno. Tuttavia, per quanto possa essere difficile, prendere atto della realtà e affrontarla porta guarigione.

Questo inizio di discorso può creare problemi di comprensione, ma poi Paolo spiega meglio ciò che intende.

«Furono tutti battezzati nella nuvola e nel mare, per essere di Mosè; mangiarono tutti lo stesso cibo spirituale, bevvero tutti la stessa bevanda spirituale, perché bevevano alla roccia spirituale che li seguiva; e questa roccia era il Messia» (10:2-4).

Questi versetti potrebbero essere presi letteralmente, ma qui Paolo fa una applicazione dell’Esodo, non una esegesi, considerando la nuvola e il mare come anticipazioni simboliche di ciò che ci sarebbe poi stato nel Nuovo Testamento.

Lo stesso vale anche per il «cibo spirituale» (v. 3), che rimanda alla manna. Essa non era stata solo spirituale, ma anche cibo concreto che riempiva lo stomaco. Anche in questo caso, dunque, Paolo fa un’applicazione, fatta pure per la «bevanda spirituale» (v. 4). Tuttavia, pensando che sia un’esegesi, molti si danno a fantasticherie varie per spiegare che la «roccia era il Messia» (v. 4) in senso letterale. La roccia non era il Messia, ma una sua prefigurazione. In Giovanni 7:37 è riportato che Gesù esclamò: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva». Come la roccia dissetò, così Gesù il Messia disseta.

Nella storia di Giuseppe e dei suoi fratelli (Gen 37-45), vediamo bene che Giuseppe era una persona reale e concreta, ma aveva anche la funzione di anticipare Gesù. Questo però non lo rendeva una teofania, ossia una apparizione mascherata di Gesù, solo perché gli assomigliava.

È scritto che ogni cosa è stata fatta per mezzo di Gesù (Giov 1:3), per cui iniziano ad esserci sue anticipazioni da Genesi 1:1. In forma più o meno velata Gesù è presente in tutto l’Antico Testamento. Paolo trae le conseguenze di ciò, mettendo a fuoco i modi velati nei quali il Messia promesso era lì già presente.

«Ma della maggior parte di loro Dio non si compiacque: infatti furono abbattuti nel deserto» (10:5).

Paolo mette in rilievo che Dio non approvò la maggior parte dei «nostri padri», che perciò «furono abbattuti nel deserto». Cominciando ad avvertire del fatto che anche i credenti in Gesù potrebbero fare la stessa fine.

«Or queste cose avvennero per servire da esempio a noi, affinché non siamo bramosi di cose cattive, come lo furono costoro, e perché non diventiate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto è scritto: “Il popolo si sedette per mangiare e bere, poi si alzò per divertirsi”. Non fornichiamo come alcuni di loro fornicarono, e ne caddero in un giorno solo ventitremila. Non tentiamo il Messia come alcuni di loro lo tentarono, e perirono morsi dai serpenti. Non mormorate come alcuni di loro mormorarono, e perirono colpiti dal distruttore. Ora, queste cose avvennero loro per servire da esempio e sono state scritte per ammonire noi, che ci troviamo nella fase conclusiva delle epoche» (10:6-11).

Spesso i credenti pensano di essere completamente diversi dagli Ebrei dell’Esodo e che anche Dio sia diverso. Supponendo che non ci siano conseguenze per le nostre scelte, perché ora ci sarebbero solo l’amore e la grazia, senza correzione. Bisogna però fare attenzione, perché fa parte del Nuovo Testamento anche Ebrei 12:7-8: «Dio vi tratta come figli; infatti, qual è il figlio che il padre non corregga? Ma se siete esclusi da quella correzione di cui tutti hanno avuto la loro parte, allora siete bastardi e non figli». Non bisogna perciò pensare alla correzione come ad un male o ad una inutile punizione, ma come un segno che Dio ci ama davvero.

Paolo è chiaro nel dire che quanto è scritto nell’Esodo riguarda anche la chiesa, perché avvenne «per servire da esempio» (vv. 6, 11) e le loro vicende «sono state scritte per ammonire noi» (v. 11). Dio è sempre lo stesso e anche il popolo di Dio cade facilmente negli stessi vizi.

Paolo avverte i credenti di non essere bramosi di cose cattive (v. 6), di non diventare idolatri (v. 7), di non fornicare (v. 8), di non tentare il Messia (v. 9), di non mormorare (v. 10). Egli lo fa perché tutte queste cose possono trovarsi nella chiesa e quindi bisogna fare molta attenzione a non cadervi.

È inutile illudere e tranquillizzare la chiesa di non assomigliare, neanche minimamente, all’Israele dell’Esodo, perché la realtà dei fatti è diversa, come già constatava Paolo con la chiesa di Corinto. Prendere consapevolezza della realtà è il primo passo per poi chiedere aiuto a Dio e ricevere da lui guida e forza per superare le difficoltà. Se invece i credenti si illudono che sarà tutto “rose e fiori”, sarà facile che prima o poi si perdano.

Al versetto 11 Paolo scrive che «ci troviamo nella fase conclusiva delle epoche», ovvero alla fine dei tempi. Nel Nuovo Testamento c’è spesso l’evocazione del ritorno imminente di Gesù, che nel suo discorso profetico (Mat 24-25) esorta ripetutamente a vigilare. Questo concetto lo abbiamo trovato anche in 1Corinzi 2:6 e 7:29, rimandiamo dunque al paragrafo 4 del Dialogo 7 e al paragrafo 4 del Dialogo 19.

«Perciò, chi pensa di stare in piedi guardi di non cadere» (10:12).

Vengono ammoniti in particolare quelli che non erano consapevoli di poter cadere, illudendosi di essere molto diversi dai «nostri padri».

«Nessuna tentazione vi ha còlti, che non sia stata umana; però Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via di uscirne, affinché la possiate sopportare» (10:13).

Troviamo qui una consolazione, posta subito dopo l’ammonimento dei vv. 1-12.

Potremmo dunque chiederci se Paolo si stia rivolgendo sempre agli stessi individui o a gruppi diversi, tutti interni alla chiesa.

Abbiamo trovato una soluzione che ci soddisfa, sulla quale ognuno può trarne le proprie conclusioni, non essendo completamente comprovata. Consiste nel considerare quella di Esodo come una “popolazione ecclesiastica”, cioè un misto di credenti sinceri, di persone che hanno iniziato un cammino verso Dio non ancora portato a compimento e di altri che hanno una comprensione distorta e si stanno illudendo. Trovandosi di fronte a un gruppo composito, è necessario ammonire i disordinati e consolare gli ordinati, usando due registri diversi. L’uditore intuirà ciò che lo riguarda e quindi, per mezzo dell’opera dello Spirito Santo, ognuno coglierà il messaggio che gli è necessario.

Anche a Corinto troviamo una “popolazione ecclesiastica”. In questo versetto Paolo si rivolge agli ordinati, che non sono credenti perfetti, ma coerenti. Questi sono rassicurati del fatto che «nessuna tentazione vi ha còlti, che non sia stata umana»; infatti, Dio non permette che chi gli si avvicina sia poi tentato dal diavolo in modo soverchiante.

Accadde così anche nella storia di Giobbe, dove Dio pose al diavolo dei limiti (Giobbe 2:6). Il limite può apparirci eccessivo, ma non lo fu per Giobbe, che non si allontanò da Dio, ma trovò anzi occasione per conoscerlo meglio (42:1-6). Questo perché Dio sa bene come calibrare i limiti per ciascuno nel modo più adatto.

Paolo continua poi la consolazione ricordando loro che «Dio è fedele», perciò possono stare tranquilli che anche nelle prove darà loro «la via di uscirne».

«Perciò, miei cari, fuggite l’idolatria» (10:14).

Dopo l’esortazione a prendere in considerazione la nostra somiglianza con l’Israele dell’Esodo, Paolo fa questa sintesi conclusiva, con la quale vuole fissare il messaggio di fuggire l’idolatria, che ha conseguenze devastanti (vv. 5-11).

4. ATTENZIONE ALL’IDOLATRIA PERCHÉ DIO È GELOSO (10:14-22)

«Perciò, miei cari, fuggite l’idolatria» (10:14).

Abbiamo già visto come questo sia un “versetto cerniera”, che dopo aver chiuso la prima parte, funge ora da titolo per questa seconda parte. Paolo, infatti, riparte dalla conclusione della parte precedente, sviluppando il tema in modo ciclico, portando ora altri argomenti a sostegno dell’importanza di fuggire l’idolatria.

«Io parlo come a persone intelligenti; giudicate voi su quel che dico. Il calice della benedizione, che noi benediciamo, non è forse la comunione con il sangue del Messia? Il pane che noi rompiamo non è forse la comunione con il corpo del Messia? Siccome vi è un unico pane, noi, che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell’unico pane. Guardate l’Israele secondo la carne: quelli che mangiano i sacrifici non hanno forse comunione con l’altare? Che cosa sto dicendo? Che la carne sacrificata agli idoli sia qualcosa? Che un idolo sia qualcosa? Tutt’altro; io dico che le carni che i pagani sacrificano, le sacrificano ai demòni e non a Dio; ora io non voglio che abbiate comunione con i demòni. Voi non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni» (10:15-21).

Certi gesti, come prendere il pane e il vino durante la cena del Signore, hanno un significato preciso, quindi non possiamo poi fare altri gesti che sono in contraddizione. Infatti, scrive Paolo: «Voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni» (v. 21).

Il vino nella cena del Signore rappresenta il sangue di Gesù e prendendolo accogliamo il suo sacrificio. Prendendo il pane ci associamo al corpo di Gesù da esso simboleggiato. Chi si identifica con il Signore Gesù non può poi identificarsi anche con i demòni, che si celano dietro agli idoli, ai quali i pagani sacrificano le carni nei loro altari.

Paolo presuppone ascoltatori del tipo: «Ma sì, in fondo Dio è uno, quindi è sempre lo stesso, anche se le forme di adorazione sono diverse». Questi li troviamo anche nell’Israele dell’Esodo, quando fecero il vitello d’oro e lo chiamarono Javè (32:1-4; cfr. Eso 20:2, 29:46). Questo atteggiamento corrotto porta ancor più corruzione, arrivando ad un ecumenismo dove uno ritiene che ogni divinità sia manifestazione del vero Dio, «perché tanto Dio è uno solo».

Paolo aveva scritto che «l’idolo non è nulla nel mondo» (1Cor 8:4). A chi supponeva che si stesse contraddicendo, scrive: «Che cosa sto dicendo? Che la carne sacrificata agli idoli sia qualcosa? Che un idolo sia qualcosa?» (10:19). Poi prosegue: «Tutt’altro; io dico che le carni che i pagani sacrificano, le sacrificano ai demòni e non a Dio; ora io non voglio che abbiate comunione con i demòni (v. 20)». Insomma, l’idolo in sé non è niente, ma se gli attribuiamo una natura divina e facciamo dei gesti di adorazione, diveniamo idolatri.

Paolo dice poi che non possiamo fare gesti contrastanti: «Voi non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni» (v. 21).

«O vogliamo forse provocare il Signore a gelosia? Siamo noi più forti di lui?» (10:22).

Paolo parla delle conseguenze dei gesti idolatri, date dalla gelosia di Dio, che è simile a quella dei fidanzati e dei mariti. Infatti, Israele è definito la sposa di Javè (Osea 2:16), mentre la chiesa è la promessa sposa del Messia, quindi la sua fidanzata (1Cor 11:2).

Una moglie potrebbe uscire con un ex compagno di scuola pensando che il marito lo tolleri, «perché tanto mi ama». Se però il marito è geloso, ci sono gravi conseguenze.

Purtroppo, non è tanto diffusa l’idea che Dio Padre e Gesù siano gelosi. È evidente come a questo riguardo Paolo rievochi l’Antico Testamento, in particolare i dieci comandamenti. In Esodo 20:3-6 è scritto: «Non avere altri dèi oltre a me. Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, Javè, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà, fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti». In Deuteronomio, che è un riassunto e una ripetizione della Legge, troviamo ripetuto anche questo concetto, dove Mosè scrive: «Non seguirete altri dèi, presi fra gli dèi degli altri popoli intorno a voi, perché il tuo Dio, Javè, che sta in mezzo a te, è un Dio geloso; l’ira di Javè tuo Dio si accenderebbe contro di te e ti farebbe scomparire dalla terra» (6:14-15). Vediamo anche qui che le conseguenze del seguire altri dèi sono devastanti.

Oltre a Paolo, nel Nuovo Testamento queste cose ce le ricorda anche Giacomo: «Oppure pensate che la Scrittura dichiari invano che: “Lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi ci brama fino alla gelosia”?» (4:5). È chiaro che per Giacomo «la Scrittura» è l’Antico Testamento, che pure lui applica ai credenti in Gesù.

5. TENERE CONTO DELLA COSCIENZA DEL PROSSIMO (10:23-30)

«Ogni cosa è lecita, ma non ogni cosa è utile; ogni cosa è lecita, ma non ogni cosa edifica» (10:23).

Paolo riprende lo schema già usato al capitolo 6, dov’è scritto: «Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile» (v. 12). Non dobbiamo solo capire qual è la libertà del cristiano, ma anche come applicarla in modo cristiano. Senz’altro siamo liberi, ma bisogna poi vedere in base alle circostanze se il mettere in atto la nostra libertà sia opportuno o meno.

«Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma ciascuno cerchi quello degli altri» (10:24).

Riguardo al comportamento verso il prossimo, si possono individuare tre categorie: gli egoisti, i giusti e i generosi. Gli egoisti sono coloro che pensano a sé e non si curano degli altri. I giusti sono quelli che pensano a sé, ma non vogliono danneggiare nessuno e si attengono alle regole. Infine, i generosi sono quelli altruisti, che hanno piacere di fare un regalo, di compiere una gentilezza. Basta poco per capire a quale categoria uno appartenga.

Decidere di essere generosi è facile, se partiamo dal presupposto che, se siamo generosi verso il prossimo, Dio sarà generoso verso di noi. Se uno inizia a fare un primo passo di generosità e vede che Dio è generoso con lui, allora continua e diventa sempre più generoso. Questa caratteristica possiamo anche usarla come termometro della nostra vicinanza a Dio.

In Proverbi 11:24 è scritto: «C’è chi spende a volontà, eppure arricchisce sempre; c’è chi risparmia più del necessario, eppure impoverisce» (TILC). Possiamo qui trovare un invito a prenderci la gioia di essere generosi, aspettandoci anche quella di vedere l’abbondanza di Dio.

Per inciso, Dio è generoso, ma lo fa in modo accorto, perché una generosità senza saggezza può anche essere dannosa per chi la riceve. Per esempio, incoraggiandolo a continuare quei comportamenti disordinati che talvolta sono la causa del ritrovarsi costantemente nel bisogno.

«Mangiate di tutto quello che si vende al mercato, senza fare inchieste per motivo di coscienza; perché al Signore appartiene la terra e tutto quello che essa contiene. Se qualcuno dei non credenti v’invita, e voi volete andarci, mangiate di tutto quello che vi è posto davanti, senza fare inchieste per motivo di coscienza. Ma se qualcuno vi dice: «Questa è carne di sacrifici», non ne mangiate per riguardo a colui che vi ha avvertito e per riguardo alla coscienza; alla coscienza, dico, non tua, ma di quell’altro; infatti, perché sarebbe giudicata la mia libertà dalla coscienza altrui? Se io mangio di una cosa con rendimento di grazie, perché sarei biasimato per quello di cui io rendo grazie?» (10:25-30).

Se ci invita a pranzo un’idolatra che abitualmente sacrifica i polli a un idolo, non dobbiamo pensare che quel cibo possa contaminarci, perché Dio è più potente e l’idolo non è nulla. Tutte le cose appartengono a Dio e se mangiamo ringraziandolo, riconoscendo che ogni cibo ci viene da lui, incluso il pollo offerto all’idolo, allora quel cibo non procura nessun danno. Tuttavia, se quello che ci invita ci dice di mangiare quella carne perché l’idolo gli conferirebbe particolari proprietà benefiche, allora Paolo invita a non mangiarla, in modo da evitare un comportamento da idolatra. Quindi, pur essendo consapevoli che l’idolo non è nulla nel mondo e, quindi, il pollo resta sempre e solo pollo, non mangiandolo teniamo conto della coscienza dell’idolatra (vv. 28-29). Il non associarsi alla sua idolatria, infatti, può aiutarlo a distaccarsene.

Ancora oggi dei credenti in Gesù potrebbero avere dubbi sul mangiare le carni trovate nei negozi o da amici con ideologie particolari. Tuttavia, qui Paolo dice che non dobbiamo fare inchieste per la nostra coscienza, perché tutto appartiene a Dio (v. 25).

Anche Pietro aveva dovuto mettere in pratica questo insegnamento, quando Dio lo mandò da Cornelio. Pietro era un Giudeo e in quanto tale aveva sempre rispettato la legge mosaica che riguarda il cibo. Cesarea era la capitale romana di quella zona, quindi con una popolazione romana, tra la quale vigeva un’altra legge, per cui era facile trovare cibi impuri. Nonostante ciò, a Pietro fu detto: «Ammazza e mangia» (Atti 10:13). Egli rispose: «Assolutamente no, Signore, perché io non ho mai mangiato nulla di impuro e di contaminato» (v. 14). Allora sentì dirsi: «Le cose che Dio ha purificate, non farle tu impure» (v. 15).

6. TUTTO ALLA GLORIA DI DIO E PER L’UTILE DEI MOLTI (10:31-33)

«Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio. Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla chiesa di Dio; così come anch’io compiaccio a tutti in ogni cosa, cercando non l’utile mio ma quello dei molti, perché siano salvati» (10:31-33).

Questi versetti costituiscono la conclusione generale dei capitoli 8-10.

Il versetto 31 potrebbe essere visto come una messa in pratica del comandamento più importante, ovvero «ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Mat 22:37). Quando uno mangia di tutto perché Dio è il Creatore e quindi tutto gli appartiene (1Cor 10:25), usa la libertà che ha in Gesù dando gloria a Dio Padre, di cui ne proclama la forza, la potenza e la sufficienza.

L’applicazione del secondo più importante comandamento, cioè «ama il tuo prossimo come te stesso», la troviamo invece al versetto 32, dove Paolo dice di non dare motivo di scandalo a nessuno. Esortando, ancora una volta, a tenere conto del prossimo e ad averne cura.

Paolo conclude ribadendo che predicava ciò che viveva, poiché il suo insegnamento principale era l’esempio. Al versetto 33, infatti, dice come lui metteva in pratica ciò che ordinava ai Corinzi. Su questa base poggia anche il capitolo 9 dove, dopo aver elencato i suoi diritti, dice di non averne fatto uso alcuno (v. 15), ma di essersi anzi «fatto ogni cosa a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni» (v. 22).

Nel paragrafo 5 del Dialogo 21 abbiamo già visto come Paolo preferisse i doveri ai diritti per ricercare l’utile dei molti, quindi non ci dilungheremo su questo. Vogliamo però ribadire quanto sia importante il senso del dovere in una chiesa, perché porta i credenti a servire e servirsi reciprocamente non per imposizione, ma per una spinta interna sostenuta dallo Spirito Santo.

Concludendo, facciamo notare che Paolo non dice di ricercare «il bene dei molti», ma «l’utile dei molti» (v. 33). Infatti, quest’ultimo non sempre viene percepito come un bene. A volte è come una puntura dolorosa, ma salvavita: inizialmente possiamo anche disprezzarla, ma poi vediamo che ci fa del bene.