Alessia Lanini

DA ADAMO AGLI APOSTOLI

Una panoramica di tutta la Bibbia basata sul testo in sé

Volume (da definire)

Scuola elementare di cristianesimo

Dialoghi sulla prima lettera di Paolo ai Corinzi, condotti da Fernando De Angelis

BOZZA 1 DEL DIALOGO 18: 1CORINZI 7:12-24

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1.Istruzioni per chi è sposato con un non credente (7:12-16)             
2.Santificarsi accettando il punto di partenza (7:17-40)          
3.L’intepretazione letterale non sempre è opportuna (7:18)       
4.L’osservanza dei comandamenti di Dio è tutto (7:19-20)         
5.Paolo non considera abolita la schiavitù (7:21-24)      

Dialogo 18

1CORINZI 7:12-24

1. ISTRUZIONI PER CHI È SPOSATO CON UN NON CREDENTE (7:12-16)

«Ma agli altri dico io, non il Signore: se un fratello ha una moglie non credente ed ella acconsente ad abitare con lui, non la mandi via; e la donna che ha un marito non credente, s’egli consente ad abitare con lei, non mandi via il marito; perché il marito non credente è santificato nella moglie, e la moglie non credente è santificata nel marito credente; altrimenti i vostri figli sarebbero impuri, mentre ora sono santi» (7:12-14).

Qui c’è «ma agli altri dico io», mentre al versetto 10 Paolo scriveva «ai coniugi poi ordino». Sembra quindi che ora parli d’altro, invece continua con lo stesso tema, passando dal considerare quando i coniugi sono ambedue credenti (vv. 10-11) a quando uno solo è credente (vv. 12-16).

«Però, se il non credente si separa, si separi pure; in tali casi, il fratello o la sorella non sono obbligati a continuare a stare insieme; ma Dio ci ha chiamati a vivere in pace; perché, tu, moglie, che sai se salverai tuo marito? E tu, marito, che sai se salverai tua moglie?» (7:15-16).

In alcune versioni della Bibbia, come la Nuova Diodati, nel versetto 15 è scritto soltanto che «non sono obbligati»; quindi, «a continuare a stare insieme» è un’aggiunta, che riteniamo comunque essere adeguata al contesto.

Tuttavia, la questione centrale è se possono solo separarsi da un non credente che non li sopporta oppure se possono poi anche risposarsi. A questo riguardo, alla fine del capitolo è scritto: «La moglie è vincolata per tutto il tempo che vive suo marito; ma, se il marito muore, ella è libera di sposarsi con chi vuole, purché lo faccia nel Signore» (v. 39). La nostra opinione è che Paolo voglia dire che se il coniuge non credente non vuole vivere con quello credente, quest’ultimo non è obbligato a restarci. Questo però non significa che possa poi risposarsi.

Paolo parla poi di moglie e non è detto che ciò valga anche per il marito. Nella Bibbia, infatti, troviamo casi di uomini, anche credenti, che avevano più di una moglie, ma non troviamo casi di mogli con più mariti. Non ci dilungheremo però su questo aspetto, essendo oggetto di numerosi dissensi.

2. SANTIFICARSI ACCETTANDO IL PUNTO DI PARTENZA (7:17-40)

«Del resto, ciascuno continui a vivere nella condizione assegnatagli dal Signore, nella quale si trovava quando Dio lo chiamò» (7:17a).

In questo versetto Paolo inizia a parlare «del resto», cioè delle altre cose, alle quali applica il principio generale qui affermato. Ovvero che ciascuno continui a vivere nella condizione in cui si trova alla sua conversione. Non è scontato considerare che Dio abbia diretto anche la vita prima della conversione. Fino alla fine del capitolo, infatti, Paolo affronterà i temi della circoncisione (vv. 18-20), della schiavitù (vv. 21-24) e poi, di nuovo, dell’essere single e dei coniugi (vv. 25-40), applicando in tutti questi casi questo principio, che funziona quindi da bussola per i credenti.

Non è difficile incontrare credenti che alla conversione vogliono cancellare il loro passato e ricominciare tutto da zero, considerando la circostanza in cui si trovano soltanto come il risultato di una vita vissuta lontano da Dio. Paolo ci dice però che la condizione in cui uno si trova quando Dio lo chiama è quella assegnatagli dal Signore e che quindi deve innanzitutto accettarla, cominciando poi un percorso che parta da lì. Per quanto possa apparire paradossale, per Paolo fra la vita da non credente e quella poi da credente ci deve essere una continuità di situazione, che va accolta e solo dopo rivista, in modo da viverla diversamente. Se alla conversione uno è sposato, Paolo gli dice che non deve divorziare, a meno che non sia il coniuge non credente a volerlo. Potrebbe anche capitare che uno si converta mentre è studente universitario, ma la reazione non deve essere di interrompere gli studi per darsi all’evangelizzazione. È utile considerare che è proprio l’essere arrivati ad un certo punto con un certo percorso che porta a riconoscere in Gesù il proprio Salvatore e Signore.

Paolo, dopo aver ripercorso la propria vita, non dice che Dio aveva iniziato ad interessarsi a lui a partire dall’episodio sulla via per Damasco, ma dice: «Dio che m’aveva prescelto fin dal seno di mia madre» (Gal 1:15). Certo è che, una volta accettata la propria situazione, Paolo l’ha vissuta diversamente. Infatti, di lui dicevano: «Colui che una volta ci perseguitava, ora predica la fede che nel passato cercava di distruggere» (Gal 1:23).

Questo principio della continuità di situazione Paolo lo ripete poi più volte nel resto del capitolo, ovvero ai versetti 20, 24, 26 e 40, come vedremo.

«Così ordino in tutte le chiese» (7:17b).

Paolo non considera questo principio solo come un buon consiglio, bensì un ordine. Inoltre, esso non era rivolto a una particolare persona o comunità, ma a «tutte le chiese». È quindi un insegnamento basilare e per tutti, anche se non sempre è predicato e praticato.

3. L’INTEPRETAZIONE LETTERALE NON SEMPRE È OPPORTUNA (7:18)

«Qualcuno è stato chiamato quando era circonciso? Non faccia sparire la sua circoncisione. Qualcuno è stato chiamato quando era incirconciso? Non si faccia circoncidere» (7:18).

Paolo esorta un circonciso a non far sparire la sua circoncisione, ma è qualcosa di impossibile! È dunque chiaro, essendo impraticabile, che il senso letterale di questi versetti è escluso. Non sempre interpretare la Bibbia alla lettera significa farlo in modo serio, come in questo caso, dove il senso di ciò che dice Paolo è figurato, spirituale e psicologico.

Per analogia, anche il non farsi circoncidere può essere inteso in senso figurato. Specie se ricordiamo che Paolo ha circonciso Timoteo (Atti 16:3), non ai fini della sua salvezza, bensì affinché i Giudei ai quali avrebbero predicato il Vangelo lo avrebbero più facilmente ascoltato. Timoteo aveva la madre ebrea, quindi aveva i titoli per essere ebreo, però non era stato circonciso, avendo il padre greco, e Paolo lo circoncise non per renderlo più santo, ma per facilitare l’evangelizzazione.

Paolo vuole qui far evitare l’atteggiamento di chi considera l’essere nato e cresciuto come ebreo o meno un qualcosa di condizionante per la propria vita da credente e, quindi, da rigettare al momento della conversione. Vuole invece incoraggiare ad accettare la propria condizione e a viverla al meglio.

4. L’OSSERVANZA DEI COMANDAMENTI DI DIO È TUTTO (7:19-20)

«La circoncisione non conta nulla e l’incirconcisione non conta nulla; ma ciò che conta è l’osservanza dei comandamenti di Dio. Ognuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato» (7:19-20).

Paolo dice che non conta né la circoncisione né l’incirconcisione, ma anche in questo caso non bisogna fermarsi al significato più immediato. È chiaro che essere o no circoncisi contava molto sul piano sociale e sotto altri aspetti, perciò è evidente che per Paolo non contava «nulla» nel senso che l’esserlo o meno non rendeva più o meno santi e, quindi, non erano essenziali né per la salvezza né per la santificazione.

Paolo poi prosegue dicendo qualcosa che fa sobbalzare i protestanti, perché afferma che «ciò che conta è l’osservanza dei comandamenti di Dio». Ciò, infatti, sembra in contraddizione con altri suoi insegnamenti, come ad esempio Galati 2:15-21, dove Paolo scrive: «Sappiamo che l’uomo non è giustificato per le opere della legge, ma soltanto per mezzo della fede nel Messia Gesù […] perché dalle opere della legge nessuno sarà giustificato» (v. 16). In Galati Paolo sta parlando di come Dio salva le persone, mentre in 1Corinzi sta dando indicazioni a persone già salvate. Per queste ultime il percorso di santificazione, che segue la conversione, porta a una sempre maggiore aderenza ai comandamenti di Dio. È infatti a questo percorso che Paolo si riferisce, cioè al mettersi in sintonia con Dio e comprendere la sua volontà per noi, perciò anche i suoi comandamenti. Questo non si contrappone alla grazia di Dio, perché la forza di osservare i comandamenti la possiamo avere solo per mezzo della sua grazia e dell’azione dello Spirito Santo in noi.

Qualcuno potrebbe leggere questo passo vedendoci come implicito il richiamo ai dieci comandamenti, ma è sbagliato. In Genesi, ad esempio, Dio non richiedeva l’osservanza dei dieci comandamenti. Neanche esistevano! Però i comandamenti di Dio esistevano. In Genesi 17:1 è scritto: «Quando Abramo ebbe novantanove anni, Javè gli apparve e gli disse: “Io sono il Dio onnipotente; cammina alla mia presenza e sii integro”». Questo «cammina alla mia presenza» presuppone un ricercare la volontà di Dio. Dio poi dice: «Abraamo ubbidì alla mia voce e osservò quello che gli avevo ordinato: i miei comandamenti, i miei statuti e le mie leggi» (Gen 26:5). È ovvio che qui non si voglia dire che Abramo conoscesse la legge di Mosè. Ma allora da dove gli derivava questa conoscenza dei comandamenti di Dio?

Abramo è il primo definito Ebreo (Gen 14:13), che significa “discendente di Eber” (“Ebereo”, da cui “Ebreo”). Eber è stato preso come riferimento in quanto era il più vecchio antenato ancora in vita, quindi quello da onorare come padre di tutti. Eber ha convissuto 283 anni con Noè e 433 anni con Sem, figlio di Noè, morendo dopo Abramo (vedi Riassunto dell’AT, p. 54). Quindi, la conoscenza di Dio da Adamo in poi, passando per Enoc e per Noè, fu trasmessa facilmente grazie alla longevità di Eber. La volontà di Dio era quindi conosciuta. Infatti, Dio giudicò i pre-diluviani, come pure Sodoma e Gomorra, basandosi non su una legge scritta, ma sulla legge della coscienza, scritta nei cuori degli uomini (Rom 2:14-15).

La legge di Mosè, inoltre, non consiste soltanto nei dieci comandamenti. Gli ebrei vi hanno addirittura individuato più di 600 precetti. Tuttavia, essa è riassumibile nelle cose più importanti e un suo riassunto lo troviamo già nell’Antico Testamento: «Con che cosa verrò in presenza di Javè e mi inchinerò davanti al Dio eccelso? Verrò in sua presenza con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà Javè le migliaia di montoni, le miriadi di fiumi d’olio? Dovrò offrire il mio primogenito per la mia trasgressione, il frutto delle mie viscere per il mio peccato? O uomo, egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; che altro richiede da te Javè, se non che tu pratichi la giustizia, che tu ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio?» (Michea 6:6-8). Michea insegna che per Dio l’essenziale consiste in tre cose: giustizia, misericordia e umiltà.

Gesù fa un altro riassunto della legge di Mosè, nel quale l’essenziale consiste in due cose soltanto: «“Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo, simile a questo, è: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti» (Mat 22:37-40). Per Paolo, perciò, osservare i comandamenti di Dio aveva come riferimento principale la sintesi fattane da Gesù, come afferma esplicitamente altrove (cfr. Rom 13:8-10; Gal 5:14).

«Ognuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato» (7:20).

Paolo ripete il principio enunciato al versetto 17, applicandolo a questo specifico contesto.

5. PAOLO NON CONSIDERA ABOLITA LA SCHIAVITÙ (7:21-24)

«Sei stato chiamato essendo schiavo? Non te ne preoccupare, ma se puoi diventare libero è meglio valerti dell’opportunità. Poiché colui che è stato chiamato nel Signore da schiavo è un affrancato del Signore; ugualmente colui che è stato chiamato mentre era libero è schiavo del Messia» (7:21-22).

Nel contesto attuale la schiavitù è concepita come orribile e assolutamente inaccettabile. Quasi sempre la si vede come condannata e superata da Gesù; tuttavia, in questi versetti Paolo pensa alla schiavitù in modo diverso. Essendo anche questo un tema che dà adito a contrasti e dissensi, ci limiteremo all’indispensabile.

Le parole di Paolo sono chiare, ma risultano inaccettabili e quindi vengono stravolte. Paolo afferma che è possibile essere allo stesso tempo socialmente schiavi e spiritualmente liberi in Dio. Questa combinazione di aspetti la troviamo già in Genesi 39:1-4, dov’è scritto: «Giuseppe fu portato in Egitto; e Potifar, ufficiale del faraone, capitano delle guardie, un Egiziano, lo comprò da quegli Ismaeliti che ce l’avevano condotto. Javè era con Giuseppe: a lui riusciva bene ogni cosa e stava in casa del suo padrone egiziano. Il suo padrone vide che Javè era con lui e che Javè gli faceva prosperare nelle mani tutto ciò che intraprendeva. Giuseppe trovò grazia agli occhi di lui e si occupava del servizio personale di Potifar, il quale lo fece maggiordomo della sua casa e gli affidò l’amministrazione di tutto quello che possedeva». Se Dio è con noi e in noi, allora la nostra condizione sociale non è vincolante.

Al contrario, si può anche non essere formalmente schiavi, ma esserlo di fatto. Che libertà ha uno che è schiavo di passioni che segue insaziabilmente e dalle quali non è mai soddisfatto? Che libertà ha il peccatore che è vinto dal proprio peccato? Di questo Paolo ne parla in Efesini 4:17-24, dove dice: «Questo dunque io dico e attesto nel Signore: non comportatevi più come si comportano i pagani […] Essi, avendo perduto ogni sentimento, si sono abbandonati alla dissolutezza, fino a commettere ogni specie di impurità con avidità insaziabile. Ma voi […] avete imparato […] a spogliarvi del vecchio uomo che si corrompe seguendo le passioni ingannatrici; a essere invece rinnovati nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo che è creato a immagine di Dio». La condizione peggiore, evidentemente, è quella di essere schiavi sia nello spirito che socialmente.

La Lettera di Paolo a Filemone testimonia come il cristianesimo non abolisca la schiavitù, seppure inviti a viverla in modo coerente con l’essere credenti. Paolo scrive a Filemone, un credente che era anche padrone dello schiavo credente Onesimo, di perdonare le malefatte di Onesimo, riaccogliendolo sempre come schiavo, ma ora anche come fratello in fede (Fil 12-18).

La schiavitù è stata spesso praticata in modi corrotti e questo ha portato a considerarla inaccettabile, in quanto l’uomo tende ad abusare di una posizione di potere, usandola a danno del prossimo, anziché a suo beneficio. Vediamo allora cosa Dio aveva detto al popolo di Israele riguardo alla schiavitù e a come loro la dovevano vivere e gestire.

Nell’Antico Testamento gli schiavi di una famiglia di ebrei venivano circoncisi, ma non come una forma di prepotenza, bensì come un farli entrare a far parte del popolo di Dio, come Dio aveva predisposto (Gen 17:12-13). Israele era una luce tra le nazioni nel gestire la schiavitù e anche i credenti in Gesù lo sono stati. Infatti, dove si è diffuso il cristianesimo si è alla fine abolita anche la schiavitù.

Viene spontaneo chiedersi se uno schiavo potesse essere contento della propria condizione. In Deuteronomio 15:12-18 è scritto: «Se un tuo fratello ebreo o una sorella ebrea si vende a te, ti servirà sei anni; ma il settimo, lo manderai via da te libero. Quando lo manderai via da te libero, non lo rimanderai a mani vuote; lo fornirai generosamente di doni presi dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio; lo farai partecipe delle benedizioni che Javè, il tuo Dio, ti avrà elargito; ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che Javè, il tuo Dio, ti ha redento; perciò io ti do oggi questo comandamento. Ma se il tuo schiavo ti dice: “Non voglio andarmene via da te”, egli dice questo perché ama te e la tua casa e sta bene da te. Allora prenderai una lesina, gli forerai l’orecchio contro la porta, ed egli sarà tuo schiavo per sempre. Lo stesso farai per la tua schiava. Non ti dispiaccia rimandarlo libero, poiché ti ha servito sei anni e un operaio ti sarebbe costato il doppio, e Javè, il tuo Dio, ti benedirà in tutto quel che farai». La schiavitù era a tempo, ma qualcuno poteva essere contento del proprio padrone e scegliere di restare schiavo a vita. La schiavitù, infatti, poteva essere una condizione desiderabile per chi rischiava di morire di fame. Offrendosi schiavo ad un buon padrone, egli avrebbe avuto da lavorare, da mangiare, avrebbe potuto prendere moglie e avere figli.

Inoltre, nell’Antico Testamento viene riconosciuto a tutti gli schiavi il diritto alla fuga. In Deuteronomio 23:15-16 è scritto: «Non consegnerai al suo padrone uno schiavo che, dopo averlo lasciato, si sarà rifugiato presso di te. Rimarrà da te, nel tuo paese, nel luogo che avrà scelto, in quella delle tue città che gli parrà meglio; e non lo molesterai». In quel contesto agricolo il lavoro dello schiavo era in campagna, quindi era facile fuggire, ma altrettanto facile era ritrovare e riprendere lo schiavo fuggito, che poi sarebbe stato severamente punito. Dio però dà ragione allo schiavo, presupponendo che nello scappare avesse un valido motivo e dunque non era da riportare al padrone né da perseguitare.

Vogliamo precisare anche che la schiavitù non è creazionale, ovvero Dio non ha creato il mondo in modo tale che alcuni fossero schiavi, ma essa è un effetto della degradazione generale del mondo. Ecco perché il non essere schiavi è un’aspirazione lecita e che Dio difende.

Tornando al nostro testo di 1Corinzi 7:21, Paolo scrive: «Sei stato chiamato essendo schiavo? Non te ne preoccupare, ma se puoi diventare libero è meglio valerti dell’opportunità». Quale opportunità? Di diventare libero oppure di testimoniare da schiavo? Purtroppo è quest’ultimo senso che scelgono alcune traduzioni. Riportiamo quella della Concordata: «Sei stato chiamato quando eri schiavo? Non te ne preoccupare, ma pur potendo diventare libero approfitta piuttosto della tua condizione». Dal contesto, però, sembra chiaro che Paolo intenda dire che uno schiavo credente, se ne ha l’occasione, è meglio che diventi libero.

«Voi siete stati riscattati a caro prezzo; non diventate schiavi degli uomini» (7:23).

Paolo vuole far comprendere che Gesù ha pagato con la propria vita il riscattato per la schiavitù spirituale, inclusa quella di chi è socialmente schiavo. Questi ultimi, dunque, non devono considerare la propria situazione come limitante, perché tutto ciò che il loro padrone potrebbe fare è comunque sotto il controllo di Dio. La vita dello schiavo credente potrebbe sembrare nelle mani del suo padrone, ma non è così, poiché la sua vita è nelle mani di Dio. Con questa consapevolezza lo schiavo si affida a Dio e così non si sentirà schiavo degli uomini, poiché non penserà che la sua vita dipenda da essi.

Questo concetto è applicabile alla vita di ogni credente, che può trovare conforto e pace in questa verità, in quanto gli altri non possono fargli nulla che Dio non voglia o permetta. Anche Gesù non è stato condizionato dal comportamento degli altri, anche quando lo hanno crocifisso. Ma quella che sembrava una sconfitta, Dio l’ha trasformata in vittoria, risuscitando Gesù dai morti (Atti 2:22-24).

«Fratelli, ognuno rimanga davanti a Dio nella condizione in cui si trovava quando fu chiamato» (7:24).

Paolo conclude questa sezione ripetendo nuovamente il principio affermato al versetto 17, che viene quindi applicato anche alla schiavitù.