Alessia Lanini

DA ADAMO AGLI APOSTOLI

Una panoramica di tutta la Bibbia basata sul testoin sé

Volume (da definire)

Scuola elementare di cristianesimo

Dialoghi sulla prima lettera di Paolo ai Corinzi, condotti da Fernando De Angelis

BOZZA 1 DEL DIALOGO

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1. I capitoli 11-14 come un’unica sezione  
2. Il fondamento è il Messia Gesù (11:1-2)         
3. L’umanità di Gesù nella sua relazione con il Padre (11:3)  
4. Essere comandanti come Gesù e sottomessi come Gesù (11:4-7)   
5. L’uomo e la donna: ruoli diversi e stessa dignità (11:8-16) 
6. Non sempre i credenti si riuniscono per il meglio (11:17-22)   

Dialogo 23

1CORINZI 11:1-22

1. I CAPITOLI 11-14 COME UN’UNICA SEZIONE

Come per i capitoli 8-10, anche i capitoli 11-14 a prima vista potrebbero non sembrare collegati. Il filo che li unisce si può cogliere conoscendo il metodo espositivo di Paolo, che spesso introduce e conclude un argomento con delle sintesi.

All’inizio della sezione Paolo scrive: «Ma voglio che sappiate che il capo di ogni uomo è il Messia, che il capo della donna è l’uomo e che il capo del Messia è Dio» (11:3). Mentre alla fine del capitolo 14 conclude: «Ma ogni cosa sia fatta con dignità e con ordine» (v. 40). Insomma, Paolo stabilisce all’inizio una specie di bussola, ossia un criterio orientativo di tutta la sezione, rappresentato da un sistema gerarchico ordinato che parte da Dio Padre, passa prima per Gesù, poi per l’uomo e termina con la donna. C’è quindi una concatenazione logica, nella quale la sottomissione della donna all’uomo non è un dettaglio, ma l’espressione terrestre di un principio cosmico. Non rendersene conto e sminuirlo, perciò, significa mettere a rischio tutto il sistema. L’ultima parola della sezione, in 14:40, è «ordine», e ciò ribadisce il criterio di ordine generale iniziato ad esprimere in 11:3.

Guardando meglio i significati delle parole «dignità» e «ordine» che troviamo nella conclusione, cioè in 14:40, vediamo che alcuni traducono «dignità» con “decoro”, ossia “aspetto dignitoso”, “onorevole”. Mentre il contrario è “meschino”, “misero”, “indecente”, “trascurato”. Altri passi nella sezione, dove troviamo significati connessi a questi aspetti della «dignità», sono in 11:4-5; 11:13,22; 12:22-25; 14:23; 14:34-35.

Riguardo alla seconda parola, ossia «ordine», in 11:3 abbiamo visto l’ordine gerarchico. In 11:34 Paolo scrive: «Quanto alle altre cose, le regolerò quando verrò». Era quindi necessario dare delle regole alle quali uniformarsi. In 12:28 troviamo poi che, anche se tutti i doni di Dio sono dignitosi, c’è un ordine di priorità che va rispettato. Il concetto di ordine si può ricavare anche in 14:27-33, dove Paolo conclude dicendo che «Dio non è un Dio di confusione, ma di pace». Dove «pace» è anche nel senso di “ordine”, secondo la CEI, che traduce: «Dio non è un Dio di disordine».

Paolo ha di fronte un gruppo di persone che fanno scelte diverse. A volte anche sbagliate e, per evitarle, stabilisce delle regole. Nei capitoli 11-14, così, affronta i vari settori nei quali c’è bisogno di mettere ordine, per evitare che la chiesa si presenti poco dignitosa e disordinata.

2. IL FONDAMENTO È IL MESSIA GESÙ (11:1-2)

«Siate miei imitatori, come anch’io lo sono del Messia» (11:1).

Cominciando ad addentrarci nel capitolo 11, vediamo che il fondamento posto è Gesù, che è l’esempio per tutti, ma deve essere ben compreso. Perché così non fosse, tutta la concatenazione che ne segue non funzionerebbe bene.

Nella versione Nuova Riveduta questo versetto viene messo come conclusione della parte precedente. Abbiamo però visto come Paolo concluda le varie sezioni in modo da potersi subito agganciare alla parte successiva. Quindi questo versetto può essere visto anche come titolo di ciò che segue.

Ad ogni modo, Paolo invita ad essere suoi imitatori, come lui lo è del Messia Gesù. Ancora una volta Paolo predica ciò che pratica.

«Ora vi lodo perché vi ricordate di me in ogni cosa e conservate le mie istruzioni come ve le ho trasmesse» (11:2).

Questo versetto è facilmente fraintendibile, perché si è portati a pensare: «Ma che bell’elogio! Certo però che non sembravano così obbedienti a Paolo. Forse i disordinati saranno stati solo una minoranza». Questa spiegazione è però in contrasto con altri versetti, dove Paolo riprende i Corinzi. Soffermandoci un po’, si può cogliere una situazione molto diffusa anche oggi. I Corinzi ricordavano l’insegnamento di Paolo, conservavano fedelmente le sue parole e ciò che aveva loro trasmesso. Tuttavia, non gli ubbidivano. Infatti, parla del loro ricordare e conservare, non dell’ubbidire.

Una caratteristica fondamentale del popolo di Dio, e a cui Dio tiene particolarmente, è che conservi fedelmente la sua Parola e anche a Corinto erano fedeli in questo. È anche diffuso il ricordare a memoria molti passi della Bibbia, ma è tutt’altra cosa metterli in pratica.

3. L’UMANITÀ DI GESÙ NELLA SUA RELAZIONE CON IL PADRE (11:3)

«Ma voglio che sappiate che il capo di ogni uomo è il Messia, che il capo della donna è l’uomo e che il capo del Messia è Dio» (11:3).

L’uomo è nel mezzo di una gerarchia, come lo è Gesù. Nei gradi militari ognuno ha i suoi sottoposti che gli devono obbedienza e i suoi superiori a cui deve obbedire. Paolo delinea quindi una concatenazione di tipo militare.

«Il capo del Messia è Dio». Non è difficile da capire, però un cristiano generalmente ribatte che Gesù ha detto: «Io e il Padre siamo uno» (Giov 10:30). E anche: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Giov 14:9). Concludendo che Gesù e il Padre sono la stessa persona. Chi pensa così legge come se ci fosse scritto che «il capo del Messia è il Messia», concludendo che «il capo di Dio è Dio».

Su questa base si dovrebbe proseguire la concatenazione pensando che «il capo dell’uomo è l’uomo» e che «il capo della donna è la donna». Infatti, se l’esempio è il Messia e il Messia è capo di se stesso, allora ognuno diventa poi capo di se stesso. Cosa che in effetti molte volte si mette sostanzialmente in pratica. Per esempio, dicendo: «Gesù è il mio capo, però io devo convincermi che quel suo insegnamento sia ora opportuno, poi anche vedere se me la sento di metterlo in pratica». Così fanno spesso gli uomini nei confronti di Gesù. Le donne, imitandoli, obbediscono agli uomini allo stesso modo.

In genere la cristianità sorvola sul fatto che «il capo del Messia è Dio». Tuttavia, questo concetto viene espresso anche in altri versetti, dove troviamo l’espressione: «Dio e Padre del nostro Signore Gesù Messia» (Rom 15:6; 2Cor 11:31; Efe 1:3; 1Pie 1:3; Apo 1:6; vedi anche Efe 1:17).  Secondo la Parola di Dio non è contraddittorio che il Dio di Gesù sia Dio Padre, a cui è di conseguenza sottomesso. Dato che troviamo tale formula in svariati versetti e usata non solo da Paolo, ma anche da Pietro e Giovanni, potremmo dire che era una formula abitualmente in uso nella chiesa. È molto importante non disconoscere l’umanità di Gesù e il suo essere una persona distinta dal Padre, perché altrimenti si crea confusione. Inoltre, dovendo Gesù essere il nostro esempio in tutto, deve esserlo anche per quanto riguarda la sua sottomissione al Padre. E per essere sottomessi a qualcuno quest’ultimo deve essere distinto da noi.

Il rapporto fra Gesù e Dio Padre lo abbiamo affrontato anche nell’Approfondimento n. 7 del Dialogo 10 e nell’Approfondimento n. 12 del Dialogo 20.

4. ESSERE COMANDANTI COME GESÙ E SOTTOMESSI COME GESÙ (11:4-7)

«Ogni uomo che prega o profetizza a capo coperto fa disonore al suo capo; ma ogni donna che prega o profetizza senza avere il capo coperto da un velo fa disonore al suo capo, perché è come se fosse rasa. Perché se la donna non ha il capo coperto, si faccia anche tagliare i capelli! Ma se per una donna è cosa vergognosa farsi tagliare i capelli o rasare, si copra il capo. Poiché, quanto all’uomo, egli non deve coprirsi il capo, essendo immagine e gloria di Dio; ma la donna è la gloria dell’uomo» (11:4-7).

Il rapporto di sottomissione di Gesù al Padre diviene ora il modello di quello della donna verso l’uomo. Questo discorso è qui applicato in generale, cioè non solo a mogli e mariti, come troviamo in Efesini 5:22-33.

Un modo classico per cancellare 1Corinzi 11:4-16 è quello di dire: «È evidente che qui Paolo si riferisce a un preciso contesto culturale. Quindi, non ci riguarda». Questo ragionamento, però, è giusto solo in parte. Infatti, Paolo è condizionato dalle circostanze che viveva, ma non solo qui. Non possiamo dire che questi versetti non contino, «perché sono condizionati», e poi andare ad altri e imporli come se non lo fossero. Tutta la Parola di Dio è sempre circostanziata e possiamo correttamente applicarla alle nostre circostanze soltanto per mezzo dello Spirito Santo.

In alcune chiese accade che gli anziani, dopo aver letto la Bibbia, riflettuto e pregato, decidano che le donne debbano mettere il velo, altrimenti non possono più frequentare l’assemblea. Essi si giustificano dicendo che vogliono essere fedeli alla Parola di Dio, nella quale «è chiaramente insegnato così». Facciamo un esempio. Se un tetto è difettoso bisogna certamente rimetterlo a posto, ma se le fondamenta scricchiolano, è da queste che si devono iniziare i lavori! Paolo dice che il fondamento è che Dio è il capo del Messia e su questa solida base prosegue con il livello successivo, ovvero che il capo di ogni uomo è il Messia. Se questo livello non è solido, prima di proseguire col livello superiore, ovvero quello per cui l’uomo è capo di ogni donna, gli uomini dovrebbero rinforzare il loro rapporto di sottomissione a Gesù. Perché è inutile cercare di rifare il tetto, cioè esortare le donne alla sottomissione, se i piani sottostanti non sono adeguati.

Vediamo l’esempio di sottomissione che Gesù ci ha dato, attraverso il suo rapporto con Dio Padre. Il Vangelo di Giovanni è quello che va più nel dettaglio su questo aspetto. In 8:29 troviamo che Gesù disse: «Faccio sempre le cose che piacciono al Padre». Gli uomini dovrebbero chiedersi: «Le donne intorno a me pensano che io faccia sempre le cose che piacciono a Gesù?». Perché se gli uomini si prendono la libertà di disobbedire a Gesù, non possono poi lamentarsi se le donne si prendono la libertà di disobbedire a loro.

In Giovanni 13:3 è invece scritto: «Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani». La sottomissione di Gesù al Padre non lo annullava, anzi il Padre gli aveva dato tutto nelle mani. Quella di Gesù al Padre era una sottomissione produttiva, a chi lo amava profondamente.

Un’altra significativa espressione è in Giovanni 5:22-23: «Il Padre non giudica nessuno, ma ha affidato tutto il giudizio al Figlio, affinché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre». La sottomissione di Gesù non comportava essere meno onorato. Spesso si pensa la sottomissione come umiliante, ma non è quella di cui parla la Bibbia, che ci mostra una sottomissione che invece eleva. In Giovanni 17:24 è scritto che Gesù disse: «Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati». Quando noi riceviamo l’amore di Gesù e ci sottomettiamo completamente a lui, Gesù fa con noi ciò che il Padre fa con lui. Ci onora al punto di volerci con sé alla destra del Padre, onorandoci come lui è onorato.

Anche in Paolo possiamo trovare un esempio di sottomissione. In 2Corinzi 5:14-15 scrive: «Infatti l’amore del Messia ci costringe, perché siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; e che egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro». Abbiamo visto che dovremmo vivere per Gesù e fare sempre le cose che gli piacciono, ma la motivazione deve essere l’amore, non la frusta. Se gli uomini spiegassero questo tipo di sottomissione alle donne, sarebbe per loro più facile accettarla.

Se per convincere le donne ad essere sottomesse non bastasse agli uomini il dare l’esempio, allora dovrebbero costringerle… con un amore oltre misura, come fa Gesù con noi. In una chiesa dove le donne sono contente di come vengono rispettate e valorizzate dagli uomini sparisce ogni graduazione, grazie all’amore fraterno reciproco. Le donne saranno a quel punto ben disposte a essere sottomesse a tali uomini. Quando però la sottomissione arriva a dover essere imposta, allora è comunque un fallimento.

Torniamo al punto di partenza: le donne devono portare il velo o no? Come prima cosa dobbiamo chiederci se la forma conti più della sostanza. Nella Bibbia Dio insegna che anche le forme hanno la loro importanza, ma che la sostanza è la cosa essenziale. Iniziamo innanzitutto a mettere in pratica la sostanza, senza fissarci sulle forme, le quali senza sostanza non sono altro che ipocrisia. E certamente gli uomini coerentemente cristiani non vogliono costringere le donne ad essere ipocrite.

5. L’UOMO E LA DONNA: RUOLI DIVERSI E STESSA DIGNITÀ (11:8-16)

«Perché l’uomo non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo; e l’uomo non fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Perciò la donna deve, a causa degli angeli, avere sul capo un segno di autorità. D’altronde, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo senza la donna. Infatti, come la donna viene dall’uomo, così anche l’uomo esiste per mezzo della donna e ogni cosa è da Dio. Giudicate voi stessi: è decoroso che una donna preghi Dio senza avere il capo coperto da un velo? Non vi insegna la stessa natura che se l’uomo porta la chioma, ciò è per lui un disonore? Mentre se una donna porta la chioma, per lei è un onore; perché la chioma le è data come ornamento. Se poi a qualcuno piace essere litigioso, noi non abbiamo tale abitudine; e neppure le chiese di Dio» (11:8-16).

Paolo dà i motivi per cui l’uomo è il capo, dicendo che la donna viene dall’uomo e che è la donna a essere stata creata per l’uomo, non viceversa. Dopo aver sottolineato questo aspetto lo riequilibra, affermando che a sua volta è l’uomo che viene poi dalla donna e che in fondo ogni cosa è da Dio. Viene spontaneo chiedersi se Paolo stia mescolando le carte, dicendo prima una cosa e poi un’altra. In realtà sta semplicemente applicando al rapporto uomo-donna i criteri del rapporto Dio Padre-Dio Figlio, cioè ruoli differenti e uguale dignità. Questi due aspetti non devono essere confusi, perché è vero che la donna deve essere sottomessa all’uomo, avendo un ruolo diverso, ma questo non comporta avere meno dignità. Anche la donna è immagine di Dio, perciò condivide la stessa natura umana dell’uomo. Vediamo così di nuovo l’importanza di avere una corretta visione del rapporto fra Gesù e il Padre per comprendere meglio il resto.

«Anche l’uomo esiste per mezzo della donna» (v. 12). Come fa un uomo a disprezzare le donne? La prima che conosce è la madre, poi sente il bisogno di una compagna e gioisce trovando quella che, «finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne» (Gen 2:23). Può avere poi una figlia e anche una nipote. Un antico detto popolare dice che «è la donna che fa l’uomo», ossia che lo forma e irrobustisce psicologicamente. Senza una donna adeguata un uomo non ha spessore. Un uomo che non è incoraggiato dalle donne, che ha e trova sul suo percorso, sarà debole. Perciò, è vero che Dio ha tratto la donna dalla costola di Adamo (Gen 2:21-22), e quindi che «la donna viene dall’uomo» (v. 12a), ma poi Dio ha riequilibrato le cose, facendo in modo che fosse la donna a partorire fisicamente l’uomo (v. 12b). Come sempre, le cose fisiche che Dio fa hanno un significato più profondo e anche educativo.

Al versetto 13 Paolo fa una domanda: «Giudicate voi stessi: è decoroso che una donna preghi Dio senza avere il capo coperto da un velo?». Oggi quasi tutti risponderebbero: «Sì», come se fosse scontato. Mentre per Paolo è scontato che sia: «No».

Paolo conclude: «Se poi a qualcuno piace essere litigioso, noi non abbiamo tale abitudine; e neppure le chiese di Dio» (v. 16). Se nella chiesa, una volta finito il culto, i fratelli si mettono ad altercare, perché uno ritiene che le donne debbano portare il velo e l’altro crede di non doverle costringere, chi ha ragione? Crediamo che sia quel terzo fratello che rifiuta di mettersi a litigare, assumendo un atteggiamento di sottomissione: «Fratelli, parliamone con calma. Io cercherò di accontentarvi e adeguarmi, comunque vi mettiate d’accordo, perché in fondo questa discussione non è l’essenziale per me». È facile, purtroppo, trovare persone a cui piace essere litigiosi, che vogliono farsi valere e che vanno al culto non tanto per un incoraggiamento reciproco, ma per far prevalere la propria opinione, trascurando le ragioni degli altri.

Nella concatenazione di Paolo manca un’ultima tappa, presente altrove (Efe 6:1-2), quella della sottomissione dei figli ai genitori. Appena nati ci si rapporta più con la madre, che resta prevalente nei figli piccoli. Una moglie sottomessa ad un marito che la ama sarà in grado di insegnare con amore la sottomissione ai figli. Ci sono invece delle madri che hanno figli disubbidienti proprio perché loro stesse danno l’esempio, ponendosi in contrasto con il marito, con la conseguenza che poi i figli spesso maturano male.

6. NON SEMPRE I CREDENTI SI RIUNISCONO PER IL MEGLIO (11:17-22)

In 11:17-22 Paolo inizia ad affrontare il tema dell’assemblea dei credenti, cioè del culto settimanale. Siccome a Corinto era diffuso un atteggiamento disordinato, anche il culto aveva bisogno di essere più regolamentato.

Il passo in esame costituisce un’introduzione e può essere suddiviso in due parti. Nella prima (vv. 17-19) Paolo parla delle divisioni tra i credenti di Corinto, mentre nella seconda (vv. 20-22) spiega loro ciò che sbagliavano nel fare la cena del Signore.

Nel presente Dialogo affronteremo solo questi primi versetti. Poi sarà necessario fare degli approfondimenti e precisare alcuni presupposti, perché le parole di Paolo sulla cena del Signore sono spesso mal interpretate.

«Nel darvi queste istruzioni non vi lodo, perché vi radunate non per il meglio, ma per il peggio» (11:17).

È possibile che i credenti si radunino per il peggio, anche quando danno per certo che ci sarà una benedizione, tranquillizzandosi con la promessa di Gesù: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mat 18:20). Perché se ci ritroviamo nel nome di Gesù facendo cose contrarie al suo carattere, non può esserci una benedizione, ma una maledizione, dato che offendiamo Gesù, più che onorarlo. Riunirsi nel nome di Gesù non è solo un incontro di carattere sociale. Se facciamo cose che non vanno bene, Gesù è molto paziente e lento all’ira, ma se perseveriamo in comportamenti incoerenti, prima o poi ce ne saranno le conseguenze.

«Poiché, prima di tutto, sento che quando vi riunite in assemblea ci sono divisioni tra voi, e in parte lo credo; infatti è necessario che ci siano tra voi anche delle divisioni, perché quelli che sono approvati siano riconosciuti tali in mezzo a voi» (11:18-19).

Il primo peccato che Paolo mette in luce nella 1Corinzi è quello riguardante le divisioni, che abbiamo affrontato nei Dialoghi 4-5.

Torna ora su questo tema, ma non per sottolineare di nuovo la gravità delle divisioni, bensì per affermarne addirittura la necessità in certi casi. Le divisioni di cui Paolo li aveva rimproverati erano quelle ingiustificate, ma possono essercene anche di giustificate. Infatti, prosegue dicendo: «Perché quelli che sono approvati siano riconosciuti tali in mezzo a voi» (v. 19b). Le divisioni giustificate si hanno quando ci si trova in presenza di comportamenti scandalosi, cioè quando ci sono cristiani che si dicono tali, ma poi nella sostanza si comportano come non credenti. Bisogna allora che i veri credenti si separino, ma non per fare un “club di santissimi”, perché anche il credente debole nella fede deve essere accolto (Rom 14:1) e la sua fiammella coltivata.

Quando però siamo in presenza di una chiesa degenerata e permeata dal disordine, anche la divisione tende a prodursi in modo disordinato. Con il risultato che, mentre prima c’era una chiesa disordinata, dopo potrebbero essercene due ugualmente disordinate.

I motivi per dividersi devono essere di rilevanza fondamentale. Ad esempio, se una chiesa non predica più la salvezza per grazia per mezzo del sacrificio di Gesù, allora non ha più senso continuare a farne parte. Ancora, se c’è qualcuno che dà scandalo ripetutamente e platealmente, non si può far finta di non vedere. Pietro, ad esempio, rimproverò i credenti per un eccesso di tolleranza verso alcuni che erano ben integrati nella chiesa, pur essendo perversi e attivi nel diffonderla, scrivendo che costoro «trovano il loro piacere nel gozzovigliare in pieno giorno; sono macchie e vergogne; godono dei loro inganni mentre partecipano ai vostri banchetti. Hanno occhi pieni d’adulterio e non possono smettere di peccare; adescano le anime instabili; hanno il cuore esercitato alla cupidigia; sono figli di maledizione!» (2Pie 2:13-14).

È importante sottolineare che chi si separa deve farlo con amore, senza insistere sui propri diritti. Alcuni dicono: «Noi abbiamo ragione! Perciò il locale di culto lo useremo noi e voi ve ne dovete trovare un altro». Bisognerebbe piuttosto rinunciare ai propri diritti, ammesso che effettivamente ci siano, separandosi invece con la massima gentilezza e disponibilità, senza produrre danni e senza iniziare poi a invitare gli altri fratelli a uscire da quella chiesa, evitando di parlare male l’uno dell’altro. Ci sono casi positivi nei quali, ad esempio, alcuni hanno deciso di fondare una nuova chiesa in un quartiere diverso, senza litigi e rimanendo in amicizia con la chiesa di provenienza, con la quale hanno anche continuato a collaborare. Quando una separazione è inevitabile, perciò, facciamo attenzione ai motivi e ai modi, così da arrivare a una situazione senza amarezze e senza dare scandalo, per non scoraggiare credenti e non credenti.

«Quando poi vi riunite insieme, quello che fate non è mangiare la cena del Signore; poiché, al pasto comune, ciascuno prende prima la propria cena; e mentre uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse delle case per mangiare e bere? O disprezzate voi la chiesa di Dio e fate vergognare quelli che non hanno nulla? Che vi dirò? Devo lodarvi? In questo non vi lodo» (11:20-22).

Quello che facevano non era «mangiare la cena del Signore», perché non manifestavano un’effettiva fratellanza, diventando così un «radunarsi per il peggio» (v. 17).

Mangiare insieme è bello e avere una cucina a disposizione nei locali della chiesa è la cosa migliore, così da preparare per tutti direttamente in chiesa. Quando questo non è possibile, ci sono casi in cui ognuno porta qualcosa, che viene poi messo insieme e diviso tra tutti. Alcune volte anche fare così è difficile, perciò ognuno porta il necessario per la propria famiglia, facendolo sufficientemente abbondante per condividerlo anche con altri. Poi può esserci qualcuno che ha fatto un dolce e che gira offrendolo a tutti. Anche in quest’ultimo caso, sebbene ognuno porti il suo, c’è poi uno scambio e un accogliersi vicendevolmente, che è un bene.

Le agapi sono belle occasioni di fratellanza, ma se le facciamo umiliando qualcuno, allora non c’è vero amore fraterno. Paolo qui scrive: «O disprezzate voi la chiesa di Dio e fate vergognare quelli che non hanno nulla? Che vi dirò? Devo lodarvi? In questo non vi lodo» (v. 22). A Corinto erano arrivati a umiliare quelli che non avevano nulla «e mentre uno ha fame, l’altro è ubriaco» (v. 21b).

Approfondimento n. 13

PRESUPPOSTI NECESSARI PER COMPRENDERE LA CENA DEL SIGNORE

A.Introduzione.

Prima di proseguire con il capitolo 12 e per una corretta comprensione della cena del Signore, riteniamo necessario definire 14 presupposti. I primi 8 li consideriamo essenziali: 3 sono ricavati dal Vangelo di Matteo e 5 dagli Atti. Ne riporteremo poi altri 6, che riteniamo comunque importanti.

Sugli argomenti che affronteremo abbiamo già anticipato qualcosa nel Dialogo 1, paragrafo 3. Fernando ci si è anche soffermato nei suoi articoli intitolati Paolo e Gesù, disponibili sul suo sito, in particolare nel 3A ai paragrafi 5-6. Mentre sui passi del Vangelo di Matteo e degli Atti, ci sono due suoi libri (Il Vangelo di Matteo alla luce dell’Antico Testamento; Ritornare al Vangelo di Pietro e Paolo, note agli Atti degli apostoli). Desideriamo rendere comprensibile l’esposizione, comunque, anche per chi non conosce i soprastanti scritti.

I Vangeli e gli Atti vengono prima della 1Corinzi, perciò bisognerebbe averli già compresi bene, specie il Vangelo di Matteo. Perché è il testo che più si sofferma sul collegamento di Gesù con l’Antico Testamento, risultando indispensabile per comprenderne correttamente il rapporto. Gli Atti, invece, devono essere compresi bene per vedere il contesto di nascita della Chiesa e le fasi che ha poi attraversato.

B.Presupposti dal Vangelo di Matteo.

B1.Presupposto n. 1: Il battesimo, un rito ebraico in vista del regno dei cieli.

Oggi il battesimo è il rito di ingresso nella chiesa. Se invitiamo un ebreo a farlo, in sostanza lo invitiamo a uscire dalla sua religione per entrare in un’altra. In realtà il battesimo era un rito di purificazione ebraico, che consisteva nel lavarsi nell’acqua, come per esempio leggiamo in Levitico 15:11: «Dovrà lavarsi le vesti, lavare se stesso nell’acqua e sarà impuro fino a sera».

Il battesimo non lo inizia a praticare Gesù, ma il Battista (Mat 3:1-11), il quale lo associa al ravvedimento e lo vede come preparazione al regno dei cieli che sta arrivando. Questo regno era quello annunciato da Daniele e che sarebbe venuto dopo quattro imperi pagani. In questo quinto regno non ci sarebbero stati i malvagi, ma solo “i santi” (Dan 7:13-14; 7:26-27). Anche i tempi annunciati da Daniele (70 settimane, che rappresentano 490 anni, Dan 9:24) coincidevano con il tempo della predicazione del Battista. Definendosi ripetutamente “Figlio dell’uomo” (per esempio, Mat 8:20), Gesù affermò di essere quel re universale ed eterno annunciato in Daniele 7:13-14.

Il battesimo, pertanto, non nasce come l’ingresso in una nuova religione, ma l’attendere il compimento di una promessa di Dio ad Israele. Con esso, insomma, non si esce dal contesto ebraico. Gesù iniziò la sua predicazione associandosi a Giovanni Battista, annunciando e facendo annunciare lo stesso messaggio: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mat 3:2; 4:17; 10:7). Anche nel battezzare Gesù agì inizialmente in parallelo con Giovanni (Mat 3:6; Giov 3:22-23; 4:1-2).

È chiaro come Matteo 3:5-12 associ il messaggio di Giovanni Battista al quinto regno di Daniele: «Gerusalemme, tutta la Giudea e tutto il paese intorno al Giordano accorrevano a lui [Giovanni]; ed erano battezzati da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Ma vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire l’ira futura? Fate dunque dei frutti degni del ravvedimento. Non pensate di dire dentro di voi: ‘Abbiamo per padre Abraamo’; perché io vi dico che da queste pietre Dio può far sorgere dei figli ad Abraamo. Ormai la scure è posta alla radice degli alberi; ogni albero dunque che non fa buon frutto, viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo con acqua, in vista del ravvedimento; ma colui che viene dopo di me è più forte di me, e io non sono degno di portargli i calzari; egli vi battezzerà con lo Spirito Santo e con il fuoco. Egli ha il suo ventilabro in mano, ripulirà interamente la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con fuoco inestinguibile”». Per Giovanni Battista il battesimo non era un rito magico che produceva effetti spirituali, ma doveva essere connesso a frutti degni del ravvedimento, altrimenti non contava niente. Ciò che contava non era il gesto in sé, ma la sostanza che rappresentava, ovvero il ravvedimento. Secondo lo schema dei riti ebraici, che sono forme associate a una sostanza, senza la quale non hanno senso.

B2.Presupposto n. 2: La Chiesa nasce come scuola di ebraismo.

Generalmente per chiesa si intende l’edificio, diverso dalla sinagoga, dove si ritrovano i cristiani. I più raffinati precisano che la chiesa sono le persone che credono in Gesù, ma anche in questo caso continua ad essere qualcosa di diverso dalla sinagoga e dall’ebraismo. “Chiesa”, però, è un termine analogo a “sinagoga” e significa “assemblea” (“ecclesia”, in greco). Veniva usato anche per indicare una assemblea senza alcuna connotazione religiosa.

In Matteo 16:18 troviamo che Gesù disse: «Edificherò la mia chiesa». Un cristiano tende a ritenere che la edificherà come entità separata dalla sinagoga, facendo una cosa nuova e istituendo una religione tutta sua. Questo però non ha fondamento, perché dal contesto è chiaro che Gesù intende che svilupperà l’assemblea “dei suoi discepoli”, dato che aveva sostanzialmente fondato una scuola di ebraismo. Gesù concepisce il suo come un movimento di rinnovamento interno all’ebraismo e questo lo si può ricavare da passi come Matteo 9:14, dov’’è scritto: «Allora si avvicinarono a lui i discepoli di Giovanni e gli dissero: “Perché noi e i farisei digiuniamo, e i tuoi discepoli non digiunano?”». Troviamo dunque i discepoli di Giovanni e quelli di Gesù, che non appartenevano a due religioni diverse, ma erano discepoli di due rabbi diversi. In Luca 11:1 vediamo poi che uno dei discepoli disse a Gesù: «Signore, insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ogni scuola aveva quindi le sue particolarità, ma erano comunque sempre interne all’ebraismo.

B3.Presupposto n. 3: Gesù ha operato all’interno dell’ebraismo.

L’operare di Gesù all’interno dell’ebraismo si può vedere, ad esempio, in Matteo 15:24, dove disse: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele». Come già aveva detto ai Dodici: «Non andate tra i pagani e non entrate in nessuna città dei Samaritani, ma andate piuttosto verso le pecore perdute della casa d’Israele» (Mat 10:5-6).

I Vangeli sono tutti interni all’ambiente ebraico, pertanto non è corretta l’idea cristiana di un Gesù che arriva e trasforma il messaggio da settario a universale. Gesù non si aprì al mondo uscendo da un ebraismo chiuso, ma il suo messaggio era universale perché l’ebraismo lo era. Nel Samo 117:1 è scritto: «Lodate Javè, voi nazioni tutte! Celebratelo, voi tutti i popoli!». Nella sua preghiera per la consacrazione del Tempio, Salomone disse: «Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, quando verrà da un paese lontano a causa del tuo nome, perché si udrà parlare del tuo gran nome, della tua mano potente e del tuo braccio disteso, quando verrà a pregarti in questa casa, tu esaudiscilo dal cielo, dal luogo della tua dimora, e concedi a questo straniero tutto quello che ti domanderà, affinché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome per temerti, come fa il tuo popolo Israele, e sappiano che il tuo nome è invocato su questa casa che io ho costruita!» (1Re 8:41-43). Al Tempio, dunque, poteva andare gente di ogni nazione, al punto che in Atti 2:5 troviamo che, in occasione della Pasqua ebraica, «a Gerusalemme soggiornavano dei Giudei, uomini religiosi di ogni nazione che è sotto il cielo».

In Giovanni 18:20 è riportato che Gesù disse: «Io ho parlato apertamente al mondo; ho sempre insegnato nelle sinagoghe e nel tempio, dove tutti i Giudei si radunano; e non ho detto nulla in segreto». Gesù era un rabbi che frequentava ambienti ebraici e insegnava dove i rabbi ebraici insegnavano. Egli non voleva fondare una nuova religione, ma riformare e purificare l’ebraismo del suo tempo.

C.Presupposti dagli Atti degli Apostoli.

C1.Presupposto n.  4: Prima di Atti 10 venivano battezzati solo i circoncisi.

È noto che Cornelio sia stato il primo non circonciso a essere stato battezzato (Atti 10:47-48). Molti però poi se lo dimenticano e suppongono che non tutti i tremila battezzati di Atti 2:41 fossero circoncisi. Questa contraddizione viene dai più mantenuta, perché c’è ormai una tradizione consolidata, dalla quale è difficile uscire.

Dopo aver battezzato Cornelio, Pietro dovette giustificarsi per ciò che aveva fatto (Atti 11:1-18). Questo conferma che, prima di Cornelio, per entrare a far parte dei discepoli di Gesù, bisognava essere ebrei e, quindi, circoncisi. In Atti 15:1 troviamo che «alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli, dicendo: “Se voi non siete circoncisi secondo il rito di Mosè, non potete essere salvati”». Ciò mostra quanto era strano che fossero battezzati i non circoncisi. Il problema era complesso e fu risolto dagli apostoli insieme alla chiesa, in un noto incontro a Gerusalemme (Atti 15). Per noi sembra una questione irrilevante e anche strana, ma per loro non era così e avevano come argomentazione il fatto che, fino ad allora, sia Gesù che gli apostoli, avevano battezzato solo i circoncisi. La decisione presa rappresentò una svolta e al v. 28 troviamo che mandarono a dire ai fratelli in Gesù provenienti dal paganesimo: «È parso bene allo Spirito Santo e a noi di non imporvi altro peso all’infuori di queste cose, che sono necessarie: astenervi dalle carni sacrificate agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla fornicazione; da queste cose farete bene a guardarvi».

I Gentili che si battezzavano, di conseguenza, non avevano l’obbligo di circoncidersi, mentre gli Ebrei continuavano a circoncidersi come al solito, essendo necessario per appartenere alla nazione. Molti affermano che in Atti 15 viene abolita la circoncisione, ma che ciò sia falso lo dimostra il fatto che poi sarà Paolo stesso a circoncidere Timoteo (Atti 16:1-3). 

C2.Presupposto n. 5: Si può essere di religione ebraica senza essere di razza ebraica.

In Atti 2:5 è detto che «a Gerusalemme soggiornavano dei Giudei, uomini religiosi di ogni nazione che è sotto il cielo». Quel giorno tremila di loro furono battezzati (v. 41). È evidente che non fossero tutti di razza ebraica, ma fossero comunque tutti circoncisi in quanto di religione ebraica. Infatti, si poteva entrare a fare pienamente parte del popolo del Dio di Israele circoncidendosi (Eso 12:48), qualunque fosse la nazionalità di nascita.

Si poteva comunque essere adoratori del Dio di Israele anche senza farsi circoncidere. Tra i molti, un esempio lo abbiamo in Naaman il Siro (2Re 5) e anche nei Niniviti (Giona 3:5-10).

Questo conferma che il Dio dell’Antico Testamento non era razzista, perché si è sempre relazionato con ogni uomo. Aveva stabilito un rapporto speciale con la nazione di Israele, non per privilegiarla, ma per farla essere uno strumento di benedizione per tutti.

C3.Presupposto n. 6: Non c’è incompatibilità teologica fra Gesù e l’ebraismo.

Molti dicono: «Nell’ebraismo era in un certo modo, ma poi nel cristianesimo è diverso. Nell’Antico Testamento le cose erano così, ma poi nel Nuovo cambia tutto». Questo schema di contrasto è profondamente radicato, ma fra Gesù e l’ebraismo non c’era alcun contrasto di tipo teologico. I contrasti riguardavano certe diffuse interpretazioni, non l’ebraismo in sé.

In Atti 2:46 vediamo che tutti i credenti in Gesù «ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio». Di questo se ne trova conferma anche in Atti 3:1, 5:21 e 5:42. Qualcuno dice: «È vero che andavano al Tempio, ma per dire che il Tempio non contava più niente». Questa è però un’assurdità, perché se fossero andati al Tempio per dire di abbandonarlo, li avrebbero come minimo cacciati via. Mentre in Atti 2:47 troviamo che i credenti in Gesù avevano il favore di tutto il popolo. Ciò significa che la predicazione di Pietro a Gerusalemme fu largamente accolta e apprezzata anche da coloro che continuarono a non riconoscere in Gesù il Messia. Questo lo si vede anche in Atti 4:21, 5:13 e 5:26.

C’è poi un passo che costituisce una dimostrazione lampante del fatto che non ci fosse un’incompatibilità teologica tra Gesù e l’ebraismo. Si trova nella parte finale degli Atti e riporta ciò che disse la chiesa di Gerusalemme a Paolo: «Fratello, tu vedi quante migliaia di Giudei hanno creduto; e tutti sono zelanti per la legge. Ora sono stati informati su di te che vai insegnando a tutti i Giudei sparsi tra i pagani ad abbandonare Mosè, e dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non conformarsi più ai riti. E allora? Sicuramente verranno a sapere che tu sei venuto. Fa’ dunque quello che ti diciamo: noi abbiamo quattro uomini che hanno fatto un voto; prendili con te, purificati con loro e paga le spese per loro affinché possano radersi il capo; così tutti conosceranno che non c’è niente di vero nelle informazioni che hanno ricevute sul tuo conto; ma che tu pure osservi la legge» (Atti 21:20-24).

Contro Paolo girava l’accusa di invitare i Giudei a non circoncidere più i figli e a non attenersi più alla legge mosaica. Gli apostoli e gli anziani di Gerusalemme affermarono che in tale accusa «non c’è niente di vero» (v. 24). Molti cristiani però direbbero che quell’accusa era vera, perché ritengono che Paolo abbia insegnato agli Ebrei credenti in Gesù a non circoncidere più i figli, mentre l’insegnamento di Paolo e degli altri apostoli riguardava i Gentili credenti, che non erano più obbligati a circoncidersi, in conformità alle decisioni prese in Atti 15.

Qualcuno, per giustificare il rito di Atti 21:23-24, dice: «Paolo l’ha fatto perché lui si faceva Giudeo con i Giudei e Gentile con i Gentili, com’è scritto in 1Corinzi 9:20». Paolo però non si faceva idolatra con gli idolatri, non si sintonizzava con chi faceva cose sbagliate. Si sintonizzava su ciò che era comunque giusto. Pertanto, non riteneva sbagliato continuare a osservare la legge in quanto Giudeo.

In Atti 21:20 viene poi detto che «migliaia di Giudei hanno creduto; e tutti sono zelanti per la legge». Significa che quando un Giudeo accettava Gesù come Messia non abbandonava la legge di Mosè, anzi essa acquistava più significato. L’anno successivo alla crocifissione non è che per i discepoli di Gesù la Pasqua non contasse più nulla. Anzi, la percepivano con un’intensità mai vissuta prima. Un Gentile che accettava Gesù non era obbligato a celebrare la Pasqua, ma per i Giudei l’agnello che veniva ucciso e il pane spezzato acquisivano un significato ancora più profondo dopo la venuta di Gesù. Questo passo di Atti 21:20-24 è necessariamente stravolto dalla cristianità, perché sconfessa i presupposti sbagliati sui quali si basa.

Il fatto che Paolo si volle mantenere interno all’ebraismo lo possiamo vedere anche in Atti 25:8, dove Paolo affermò in sua difesa: «Io non ho peccato né contro la legge dei Giudei, né contro il tempio, né contro Cesare». Paolo non dice: «Io sono uscito dall’ebraismo ed ho le mie giustificazioni per dire cose controverse». Questo concetto è ripetuto anche alla fine di Atti, quando Paolo convocò i notabili fra i Giudei di Roma e disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il popolo né contro i riti dei padri, fui arrestato a Gerusalemme e di là consegnato in mano ai Romani» (28:17).

C4.Presupposto n. 7: Prima di Atti 18 non ci sono assemblee domenicali di battezzati.

Sembra incredibile, eppure prima di Atti 18 non troviamo alcuna costituzione formale di una chiesa, intesa come assemblea di tutti i credenti in Gesù di un dato luogo. Prima di Atti 18, infatti, i credenti in Gesù partecipavano alle riunioni della sinagoga, come aveva fatto Gesù. Si potrebbe pensare che un cristiano andasse in sinagoga per invitare ad uscirne, ma se fosse stato così, avrebbe potuto farlo una sola volta. Troviamo invece che Paolo frequentò la sinagoga di Efeso per tre mesi (Atti 19:8). A Tessalonica ci andò per tre sabati consecutivi (Atti 17:2) e a Corinto «ogni sabato» (Atti 18:4). L’apostolo Paolo annunciava che il Messia, il Figlio di Davide, era arrivato ed era Gesù. Li invitava ad accoglierlo, facendo un passo avanti nella loro fede, restando Ebrei osservanti e membri della sinagoga.

Ci sono due versetti che vengono presi come dimostrazione che i credenti in Gesù si incontrassero la domenica, ma in realtà sono equivocati. Il primo è Atti 20:7, dov’è scritto: «Il primo giorno della settimana, mentre eravamo riuniti per spezzare il pane, Paolo, dovendo partire il giorno seguente, parlava ai discepoli, e prolungò il discorso fino a mezzanotte». Per gli ebrei l’ultimo giorno della settimana è il sabato e il seguente è perciò il primo. Il punto è che per loro il sabato finiva al tramonto, quando c’era l’incontro di chiusura del giorno di riposo, come ancora oggi fanno. Così fece Paolo e la dimostrazione ne è il fatto che l’incontro si protrasse oltre mezzanotte, perciò era cominciato di sera e non di mattina. Erano «riuniti per spezzare il pane», ossia per mangiare insieme. Questo modo di dire deriva da un’altra tradizione ebraica, anch’essa ancora in uso, consistente nell’iniziare il pasto di chiusura del sabato rompendo il pane. Pertanto, non stava a indicare la cena del Signore, che in 1Corinzi 11:18 Paolo introduce dicendo: «Quando vi riunite in assemblea». Il gesto di rottura del pane lo si trova anche in Atti 2:46, dove si incontravano a piccoli gruppi nelle case e mangiavano insieme, ma ciò non era la stessa cosa di quando si ritrovavano in assemblea, che per loro restava quella del sabato in sinagoga. D’altronde, i tremila battezzati di Atti 2:41 non potevano riunirsi in una casa. Su questo contiamo di tornarci quando affronteremo il capitolo 11, volendo ora sottolineare solo che in Atti 20:7 non ci fu quell’incontro domenicale divenuto poi abituale.

Il secondo versetto che viene equivocato è 1Corinzi 16:2: «Ogni primo giorno della settimana ciascuno di voi, a casa, metta da parte quello che potrà secondo la prosperità concessagli, affinché, quando verrò, non ci siano più collette da fare». A molti sembra chiaro che il primo giorno della settimana uno mettesse da parte l’offerta, poi andava al culto e la metteva nella cassetta comune, ma non è così. Infatti, qui è scritto «a casa, metta da parte» e «quando verrò». Ognuno, quindi, avrebbe messo da parte ciò che poteva e poi quando Paolo fosse andato da loro, gli avrebbero consegnato quanto accantonato. Paolo poi parlò di farlo «a casa», quindi non si riferisce al culto cristiano.

Per quanto riguarda il mettere da parte l’offerta il primo giorno della settimana, abbiamo ricevuto una spiegazione per noi convincente. Se uno stabilisce all’inizio ciò che spenderà durante la settimana, non offrirà al Signore ciò che gli avanza alla fine (sabato), perché nell’Antico Testamento si ribadisce più volte che a Dio spetta la primizia (per esempio, Eso 34:26). Per questo l’offerta per l’opera di Dio doveva essere messa da parte all’inizio della settimana.

C5.Presupposto n. 8: La prima assemblea cristiana si ha a Corinto e dopo a Efeso.

Non ci dilunghiamo sul fatto che i cristiani facessero l’incontro settimanale il sabato, essendo detto nei dieci comandamenti di riposarsi il settimo giorno (Eso 20:10), che è il sabato e non la domenica. La domenica è un’invenzione puramente cristiana, fatta per distinguersi e contrapporsi all’ebraismo, negando implicitamente l’ebraicità di Gesù.

In Atti 18:4-7 è riportato quanto accadde a Corinto: «Ma ogni sabato [Paolo] insegnava nella sinagoga e persuadeva Giudei e Greci. Quando poi Sila e Timoteo giunsero dalla Macedonia, Paolo si dedicò completamente alla Parola, testimoniando ai Giudei che Gesù era il Messia. Ma poiché essi facevano opposizione e lo insultavano, egli scosse le sue vesti e disse loro: “Il vostro sangue ricada sul vostro capo; io ne sono netto; da ora in poi andrò dai pagani”. E, uscito di là, entrò in casa di un tale chiamato Tizio Giusto, che temeva Dio e aveva la casa attigua alla sinagoga». Questo passo costituisce il certificato di nascita della Chiesa, nel suo essere un’assemblea separata dalla sinagoga. Vediamo però che Paolo non fa un incontro separato dalla sinagoga a causa di un’incompatibilità teologica, ma perché lui e gli altri erano stati cacciati da coloro che non avevano accettato Gesù come Messia. Paolo si ritrovò costretto a separare i seguaci di Gesù dal resto dei Giudei, ovviamente continuando a fare l’incontro il sabato. A quel punto, essendoci solo credenti in Gesù, non era opportuno che l’incontro fosse identico a quello sinagogale. Divenne così cristocentrico, cioè incentrato sul ricordare Gesù e il suo sacrificio. Questa decisione Paolo non la prese da sé, ma come vedremo più avanti, gli fu ispirata dal Signore Gesù (1Cor 11:23). Non è un caso, dunque, che nella 1Corinzi troviamo un concentrato di istruzioni per il culto ed estesi chiarimenti su cosa rappresenta la Chiesa, dato che proprio a Corinto si è formalizzata la Chiesa per la prima volta.

Paolo va poi a Efeso e anche lì accade qualcosa di simile. Non a caso anche in questa lettera troviamo molto sulla Chiesa come corpo del Messia. Ad Efeso, Paolo entrò nella sinagoga «e qui parlò con molta franchezza per tre mesi, esponendo con discorsi persuasivi le cose relative al regno di Dio. Ma siccome alcuni si ostinavano e rifiutavano di credere dicendo male della Via in presenza della folla, egli, ritiratosi da loro, separò i discepoli e insegnava ogni giorno nella scuola di Tiranno» (Atti 19:8-9). Mentre a Corinto si erano provvisoriamente arrangiati nella casa di uno che viveva vicino alla sinagoga, qui troviamo che andarono in un locale pubblico. D’altronde, dovevano accogliere tutti e saranno stati tanti, dopo aver predicato per tre mesi, perciò non potevano essere messi in una casa. Anche qui, la causa non era l’incompatibilità teologica con i Giudei, ma il non essere tollerati da una maggioranza che non accettava Gesù come Messia.

È inevitabile chiedersi in che giorno i cristiani dovrebbero riunirsi oggi. In Romani 14:5 è scritto che alcuni ritenevano certi giorni come speciali, mentre altri non facevano differenza fra i vari giorni. Per Paolo erano accettabili ambedue i modi. Oggi ci sono credenti in Gesù in varie parti del mondo che si riuniscono in un giorno oppure nell’altro, per via di specifiche necessità o del contesto culturale. I cristiani non sono vincolati a un giorno specifico e senz’altro possiamo riunirci la domenica, ma non spacciando questo come l’osservanza di uno dei dieci comandamenti. Perché lì è indicato il settimo giorno, cioè il sabato (Eso 20:8:11), le cui caratteristiche non sono le stesse della nostra domenica.

D.Altri presupposti importanti

D1.Presupposto n. 9: Paolo aveva un dialogo continuo con Gesù.

Paolo aveva acquisito una eccellente conoscenza dell’Antico Testamento alla scuola del grande Gamaliele (Atti 22:3; cfr. 5:33-40). Dopo l’incontro con Gesù, ebbe subito contatto con vari credenti e poi anche con gli stessi apostoli (Atti 9:17-30). Dai suoi scritti si vede poi una chiara attitudine alla riflessione e allo studio. Tutto ciò ha evidentemente una sua importanza, ma la specificità e la rilevanza dell’opera di Paolo sono derivate soprattutto da una particolare vocazione rivoltagli da Gesù, che continuò ad apparirgli fino alla fine (Atti 18:9-10; 22:17-21; 23:11; cfr. 27:23-24; cfr. 2Cor 12:1-9).

Nel raccontare la sua conversione, Paolo riporta così la chiamata ricevuta da Gesù: «Per questo ti sono apparso: per farti ministro e testimone delle cose che hai viste, e di quelle per le quali ti apparirò ancora». Quella sulla via per Damasco (Atti 9), perciò, è stata solo la prima di una serie di apparizioni, attraverso le quali Paolo è stato guidato nel servizio affidatogli. Più che parlare dell’opera di Paolo, perciò, bisognerebbe parlare dell’opera di Gesù per mezzo di Paolo.

D2.Presupposto n. 10: Tutte le parole di Paolo sono in sintonia con il pensiero di Gesù.

Proprio nel concludere la 1 Corinzi, Paolo fa un’affermazione inequivocabile: «Le cose che io vi scrivo sono comandamenti del Signore» (14:37). Ciò che condivideva ai Corinzi non erano sue iniziative, ma proveniva dal Signore, che dal contesto è chiaro essere Gesù. Anche nei casi in cui prendeva sue iniziative, Paolo dice che era comunque in sintonia con Gesù. In 7:25 scrive: «Ma do il mio parere, come uno che ha ricevuto dal Signore la grazia di essere fedele».

D3.Presupposto n. 11: A Corinto Paolo è stato incoraggiato da Gesù in modo speciale.

Al paragrafo C5 abbiamo visto che quella di Corinto è la prima assemblea dei discepoli di Gesù. Questo rappresentò evidentemente uno sviluppo importante e Gesù incoraggiò Paolo con un messaggio speciale, proprio subito dopo che Paolo aveva scelto di fare un culto separato dalla sinagoga: «Una notte il Signore disse in visione a Paolo: “Non temere, ma continua a parlare e non tacere; perché io sono con te, e nessuno ti metterà le mani addosso per farti del male; perché io ho un popolo numeroso in questa città”. Ed egli rimase là un anno e sei mesi, insegnando tra di loro la Parola di Dio» (Atti 18:6-11).

D4.Presupposto n. 12: L’Ultima Cena fu una consueta cena ebraica.

Sebbene molti lo pensino, non è nell’Ultima Cena che Gesù istituisce la Cena del Signore. I Vangeli riportano che Gesù e gli Apostoli in quell’occasione fecero una normale cena pasquale ebraica. Senz’altro Gesù gli ha dato un significato aggiuntivo, ma la celebrò nei modi tradizionali e non istituì il culto cristiano.

Questo lo si può vedere andando alla descrizione di Luca 22:7-20: «Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva sacrificare la Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni, dicendo: “Andate a prepararci la cena pasquale, affinché la mangiamo”. Essi gli chiesero: “Dove vuoi che la prepariamo?” Ed egli rispose loro: “Quando sarete entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo nella casa dove egli entrerà. E dite al padrone di casa: ‘Il Maestro ti manda a dire: ‘Dov’è la stanza nella quale mangerò la Pasqua con i miei discepoli?’’ Ed egli vi mostrerà, al piano di sopra, una grande sala ammobiliata; qui apparecchiate”. Essi andarono e trovarono com’egli aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Quando giunse l’ora, egli si mise a tavola, e gli apostoli con lui. Egli disse loro: “Ho vivamente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire; poiché io vi dico che non la mangerò più, finché sia compiuta nel regno di Dio”. E, preso un calice, rese grazie e disse: “Prendete questo e distribuitelo fra di voi; perché io vi dico che ormai non berrò più del frutto della vigna, finché sia venuto il regno di Dio”. Poi prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi”».

Ci sono quelli che vorrebbero essere letteralisti, cioè attenersi strettamente al testo biblico. Poi però sono costretti a concentrarsi solo su qualche dettaglio, come l’uso di un solo calice dal quale bere tutti, oppure utilizzare dei bicchierini. A voler essere letteralisti, tante cose andrebbero fatte in modo diverso da come si fanno oggi nella Cena del Signore. Per esempio, l’Ultima Cena fu una vera cena fra amici, che arrivò fino all’alba; c’erano solo 11 discepoli e tutti maschi; fu una cena pasquale ebraica. Tutt’altro, insomma, di quel rito simbolico che si è soliti fare la domenica mattina, dopo il quale ognuno generalmente va a pranzo a casa propria.

D5.Presupposto n. 13: Pietro non ha iniziato subito il culto cristiano.

Pietro aveva ascoltato l’invito di Gesù: «Fate questo in memoria di me» (Luca 22:19). Eppure poi non ha organizzato un’assemblea in cui passassero un calice e prendessero tutti un pezzetto di pane. Anzi, i credenti «rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme», ovvero mangiavano insieme (Atti 2:46). Essendo in più di tremila, non si potevano riunire in una casa, ma c’era comunque una condivisione fraterna fra piccoli gruppi nelle varie case.

In conseguenza di quanto Gesù aveva detto nell’Ultima Cena, insomma, è evidente che Pietro non ha ritenuto di iniziare il culto cristiano, ma ha continuato la sua vita da ebreo credente nel Messia Gesù, vivendo all’interno dell’ebraismo, come Gesù gli aveva insegnato.

D6.Presupposto n. 14: La Cena del Signore è un adattamento dell’Ultima Cena.

Abbiamo accennato a quelli che vorrebbero essere letteralisti, pur essendo impossibile. Perché ciò che noi facciamo è necessariamente sempre un adattamento. Il primo adattamento è stato proprio Paolo a farlo, sotto la guida di Gesù. Chi perciò si vuole attenere letteralmente a ciò che Paolo insegna in 1Corinzi 11, cade in una contraddizione implicita. Per essere fedeli all’insegnamento che Paolo ha adattato per quelli di Corinto, bisognerebbe fare un adattamento di quelle istruzioni alle nostre circostanze di chiesa, guidati non dalle preferenze personali, ma dallo Spirito Santo.

Molti si rifiutano di ammettere che il culto cristiano sia un adattamento fatto in seguito per mezzo di Paolo, volendolo forzatamente far risalire tutto all’Ultima Cena a all’inizio degli Atti, perché non accettano che il cristianesimo sia frutto di un percorso storico, volendolo invece far cominciare dalla prima pagina del Vangelo, dove invece troviamo un Giovanni Battista che predicò in un contesto che poi subirà diversi cambiamenti.

Quando si insiste che Gesù usò un solo bicchiere e che così si deve fare, non si tiene conto che quello era un modo comune praticato in tutte le circostanze. L’Ultima Cena si inserì in un contesto normale di vita, perciò chi adotta la pratica del bicchiere unico in quel contesto, dovrebbe adottarla anche a casa. Rievocare l’Ultima Cena con una ritualità separata dalla vita quotidiana, significa concepire anche la fede come poco collegata con il vissuto.

Altri si considerano letteralisti facendo la Cena del Signore esclusivamente con il succo d’uva non fermentato. È però sostanzialmente impossibile che Gesù l’abbia fatto, perché il succo d’uva di per sé fermenta e diventa subito vino. Al tempo di Gesù non avevano le bottiglie sigillate e sterilizzate per impedire la fermentazione, perciò è del tutto evidente che Gesù usò il normale vino, anche se molti credenti anglofoni hanno difficoltà ad accettarlo, a causa di una cultura che considera l’alcool al pari della droga.

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1CORINZI 11:23-26

1. L’ISTITUZIONE DELLA CENA DEL SIGNORE AVVIENE A CORINTO (11:23-26)

«Poiché ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”» (11:23-26).

L’Ultima Cena fu un pasto di condivisione tra Gesù e gli Apostoli. In 1Corinzi 11 diventa invece una celebrazione di testimonianza. Paolo, infatti, scrive: «Voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (v. 26). Oggi le chiese cristiane hanno mantenuto questa tradizione, rievocando ogni volta la morte e la resurrezione di Gesù.

«Ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso» (v. 23). Paolo non dice che lo ha ricevuto da Pietro, perché non dà queste istruzioni sulla base di ciò che Pietro gli ha raccontato dell’Ultima Cena, bensì ciò che gli era pervenuto direttamente da Gesù. Inoltre, non è la prima volta che Paolo ne parla ai Corinzi, perché non dice «quello che vi sto trasmettendo», ma «quello che vi ho trasmesso». Paolo vuole dunque ricordare l’essenziale di quello che già aveva detto ai Corinzi, in modo da poterlo poi applicare.

Per comprendere lo scopo di Paolo, dobbiamo ricordare che il culto sinagogale prevedeva la lettura di Mosè e dei profeti e aveva tutto un suo ordine. Trovandosi ora insieme solo i discepoli di Gesù, non era opportuno fare tutto come prima, ma il culto andava adattato avendo al centro Gesù. Anche la rottura del pane era da adattare alla nuova situazione, ovvero all’esserci un’assemblea dei discepoli di Gesù di quella città in un unico luogo e non più piccoli gruppi nelle case. Ai versetti 25-26 troviamo due volte «ogni volta», che non significa “ogni giorno”. Infatti, Paolo scrive: «Quando vi riunite in assemblea» (v. 18). Era a questo momento che quindi si riferiva e non a quello del rompere il pane nelle case. Paolo fa qui un’applicazione al nuovo contesto, adattando una Ultima Cena che non è riproducibile. Ed è Gesù stesso a guidarlo in questo adattamento.

«Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue» (v. 25). Dicendo «nuovo patto», è implicito che ce ne fossero stati altri e infatti li troviamo in tutto l’Antico Testamento. I patti precedenti a Gesù erano stati fatti nel sangue che simboleggiava il suo. Come il sangue dell’agnello della Pasqua ebraica, che proteggeva dal giudizio di Dio, evidente simbolo di quello dell’Agnello Gesù. Tra il simbolo di Gesù e la realtà di Gesù c’è uno sviluppo, non un contrasto.

Tutti i più santi re e le migliori guide di Israele hanno solitamente promosso un patto di consacrazione a Dio guidando Israele nella santificazione. Tra questi troviamo Mosè (Eso 24:8), Asa (2Cro 15:10-15), Ioas e il suo reggente Ieoiada (2Cro 23:16-18), Ezechia (2Cro 29:10), Giosia (2Cro 34:31). Abbiamo anche Giosafat (2Cro 17-20) che, sebbene non fece un patto formale, condusse il popolo ad avere fiducia in Javè. Neemia, pur introducendo qualche distorsione su cui non ci dilunghiamo, imitò quei patti di santificazione (Neemia 9:38). Davide (1Cro 16) spronò il popolo a santificarsi e Salomone, all’inaugurazione del Tempio, coinvolse ed esortò il popolo a consacrarsi a Dio (1Re 8:65-66). Se tutti questi predecessori si comportarono così, poteva essere da meno Gesù?

Gesù ha fatto un patto migliore di quelli precedenti, ma efficace era anche il sangue degli agnelli, che simboleggiava quello di Gesù, perché il sangue di Gesù non ha avuto effetto solo dopo la sua morte. Nell’Antico Testamento, il sangue che a suo tempo avrebbe versato Gesù era efficace come la firma di una cambiale, che permette di avere subito del denaro sulla base di un impegno futuro, come Paolo insegna in Romani 3:25-26. Oltre che ad essere la realtà di ciò che era prima simboleggiato, il patto di Gesù non necessita come i precedenti di essere rinnovato, perché Gesù è risorto e vive in eterno.

Fra i patti che abbiamo citati, quello che troviamo più adatto a far comprendere Gesù è quello fatto da Asa: «Si unirono per giuramento a Javè con gran voce e con acclamazioni, al suono delle trombe e dei corni. Tutto Giuda si rallegrò di questo giuramento; perché avevano giurato di tutto cuore, avevano cercato Javè con grande ardore ed egli si era lasciato trovare da loro. E Javè diede loro pace lungo i confini» (2Cro 15:10-15). Come conseguenza del patto di santificazione, Javè diede loro pace. Come Gesù l’ha promessa a chi si rifugia in lui: «Vi lascio pace; vi do la mia pace» (Giov 14:27).