Alessia Lanini

DA ADAMO AGLI APOSTOLI

Una panoramica di tutta la Bibbia basata sul testoin sé

Volume (da definire)

Scuola elementare di cristianesimo

Dialoghi sulla prima lettera di Paolo ai Corinzi, condotti da Fernando De Angelis

BOZZA 1 DEL DIALOGO 29: 1CORINZI 14:1-25     

Scarica qui il file del Dialogo 29.

Scarica qui il file dei Dialoghi 23-29.
Scarica qui il file dei Dialoghi 17-22.
Scarica qui il file dei Dialoghi 6-16.
Il file dei Dialoghi 1-5 è scaricabile dal post sul Dialogo 5

1. Introduzione               
2. L’amore porta a privilegiare il dono di profezia (14:1-4)             
3. Senza interpretazione è un parlare al vento (14:5-9)      
4. La fede ha componenti spirituali e razionali (14:10-20)      
5. Le lingue servono di segno per i non credenti (14:21-22)               
6. La profezia manifesta l’amore di Dio (14:23-25)        
7. Un esempio di diversità costruttiva               

Dialogo 29

1CORINZI 14:1-25

1. INTRODUZIONE

Il capitolo 14 della 1Corinzi è il principale riferimento nel Nuovo Testamento per la questione del dono delle lingue, ma spesso viene considerato fuori dal contesto. Noi ci siamo arrivati dopo aver affrontato i precedenti capitoli e vogliamo tenere in mente la base con la quale Paolo ha affrontato il tema.

Il capitolo può essere diviso in tre parti:

-nella prima (vv. 1-25) Paolo espone dottrinalmente il tema del dono delle lingue e di profezia;

-nella seconda (vv. 26-35) fa l’applicazione concreta di questo insegnamento;

-nella terza (vv. 36-40) chiude il capitolo 12 e anche la sezione dei capitoli 11-14.

In questo Dialogo affronteremo solo la prima parte. Cominciando con il ribadire il nostro “sì” ai doni, come anche abbiamo precisato trattando il capitolo 12 (Dialogo 27). Se Gesù è sempre lo stesso, non può aver cessato di fare i doni alla chiesa. Le chiese che teorizzano la cessazione dei doni non si attengono al Nuovo Testamento, come invece dichiarano, perché lo considerano non valido per sé, ma come una storia ormai passata.

Diciamo invece “no” al porre al centro il dono delle lingue, come molte chiese fanno. Vedremo che Paolo ripete che questo dono non può essere posto al centro. Ancora più deviante è poi fare di esso una discriminante denominazionale, impedendo a chi non ha quella veduta di essere membro effettivo della chiesa. Così facendo, non solo si distorcono le parole del capitolo 14, ma anche dei primi quattro capitoli della 1Corinzi, dove Paolo contrasta la grave deviazione del denominazionalismo.

Ci sono libri intitolati “Cosa farebbe Gesù?”. Questa domanda è bene porsela se siamo suoi seguaci. D’altronde, Pietro ha scritto che Gesù ci ha lasciato «un esempio perché seguiate le sue orme» (1Pie 2:21). Nei Vangeli non troviamo mai che Gesù si mise a parlare in lingue. In essi abbiamo l’essenziale e di questo dono non se ne parla. Dunque, perché prendere un dettaglio per ricoprirci poi l’intera Bibbia?

2. L’AMORE PORTA A PRIVILEGIARE IL DONO DI PROFEZIA (14:1-4)

«Ricercate l’amore e desiderate ardentemente i doni spirituali, principalmente il dono di profezia. Perché chi parla in altra lingua non parla agli uomini, ma a Dio; poiché nessuno lo capisce, ma in spirito dice cose misteriose. Chi profetizza, invece, parla agli uomini un linguaggio di edificazione, di esortazione e di consolazione. Chi parla in altra lingua edifica se stesso; ma chi profetizza edifica la chiesa» (14:1-4).

Alcuni credenti ritengono che il parlare in lingue sia il segno distintivo dei credenti. In realtà, Gesù disse: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Giov 13:35). Parlare in lingue non è il segno distintivo e anzi contrasta quello vero, che è l’amore.

Paolo ha iniziato il capitolo tracciando la cornice del quadro che poi ha disegnato. Così nei primi versetti fa una sintesi di ciò che poi dirà, mettendo in pratica il capitolo 13 sull’amore.

Paolo ha messo al primo posto la ricerca dell’amore, poi quella dei doni. La prima cosa da chiedere a Dio, quindi, non sono i doni, ma la capacità di amare i fratelli. Da questo ne deriverà il volerli aiutare. Al versetto 3 è scritto: «Chi profetizza, invece, parla agli uomini un linguaggio di edificazione, di esortazione e di consolazione». Nelle chiese c’è tanto bisogno di questo lavoro tra i fratelli. Invece, «chi parla in altra lingua edifica se stesso» (v. 4b). Non è che non si debba edificare se stessi, ma quando si è in comunità, se si pone al centro l’amore, si privilegerà l’edificare la chiesa. Mentre l’esercizio del dono delle lingue può arrivare ad alimentare l’orgoglio, pensando che con esso il credente si collochi su un piano superiore rispetto agli altri.

3. SENZA INTRPRETAZIONE È UN PARLARE AL VENTO (14:5-9)

«Vorrei che tutti parlaste in altre lingue, ma molto più che profetaste; chi profetizza è superiore a chi parla in altre lingue, a meno che egli interpreti perché la chiesa ne riceva edificazione» (14:5).

Non troviamo qui un contrasto tra bene e male, ma tra ciò che è bene, cioè il parlare in altre lingue, e qualcos’altro che è meglio, cioè il profetare. Paolo anticipa quello che poi tratterà più ampiamente, introducendo la necessità dell’interpretazione quando c’è chi parla in altre lingue.

«Dunque, fratelli, se io venissi a voi parlando in altre lingue, che vi servirebbe se la mia parola non vi recasse qualche rivelazione, o qualche conoscenza, o qualche profezia, o qualche insegnamento? Perfino le cose inanimate che danno suono, come il flauto o la cetra, se non danno suoni distinti come si riconoscerà ciò che si suona con il flauto o con la cetra? E se la tromba dà un suono sconosciuto, chi si preparerà alla battaglia? Così anche voi, se con la lingua non proferite un discorso comprensibile come si capirà quello che dite? Parlerete al vento» (14:6-9).

Conclusa una prima sintesi generale con il «dunque», Paolo passa poi ad un’esposizione più dettagliata. Cominciando con il far notare che, se ciò che diciamo non è comprensibile, allora parleremo al vento (v. 9). Perché si induce chi ascolta a pensare che stiamo facendo qualcosa di inutile e pazzo. Ci sono chiese in cui, ad un certo punto, si invitano i credenti a parlare in altre lingue, perché «ora siamo nella libertà dello Spirito Santo», ma in realtà è come se dicessero: «Fratelli, sentitevi liberi di parlare al vento». È chiaro che tali scelte non sono fatte sulla base della Parola di Dio, ma sulle proprie decisioni denominazionali.

4. LA FEDE HA COMPONENTI SPIRITUALI E RAZIONALI (14:10-20)

«Ci sono nel mondo non so quante specie di linguaggi e nessun linguaggio è senza significato. Se quindi non comprendo il significato del linguaggio sarò uno straniero per chi parla, e chi parla sarà uno straniero per me. Così anche voi, poiché desiderate i doni dello Spirito, cercate di abbondarne per l’edificazione della chiesa» (14:10-12).

Com’è scritto anche in 1Tessalonicesi 5:11, l’assemblea di tutti i credenti in Gesù si fa per edificarsi l’un l’altro, non per mettersi in mostra.

«Perciò chi parla in altra lingua preghi di poter interpretare; poiché, se prego in altra lingua, prega lo spirito mio, ma la mia intelligenza rimane infruttuosa. Che dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza; salmeggerò con lo spirito, ma salmeggerò anche con l’intelligenza. Altrimenti, se tu benedici Dio soltanto con lo spirito, colui che occupa il posto come semplice uditore come potrà dire: «Amen!» alla tua preghiera di ringraziamento, visto che non sa quello che tu dici? Quanto a te, certo, tu fai un bel ringraziamento; ma l’altro non è edificato» (14:13-17).

È ribadito con chiarezza che, durante l’assemblea, se non c’è l’interpretazione non si può parlare in altra lingua. Nonostante ciò, questa regola spesso non è rispettata e si fa come al tempo di Isaia: «Ognuno di noi seguiva la propria via» (53:6). Facendo scelte in base a preferenze e ragionamenti personali, senza considerare ciò che la Parola di Dio insegna.

La fede ha una dimensione spirituale, che prevede un rapporto tra noi e Dio. Al versetto 2 Paolo scrive: «Chi parla in altra lingua non parla agli uomini, ma a Dio». Farlo non è sbagliato ma, come abbiamo detto, se stiamo in assemblea siamo lì per parlare con i fratelli. Dio arriva a dirci che non è opportuno parlare solo con lui durante gli incontri comunitari. Perché quando siamo con gli altri siamo chiamati ad aprirci a loro, a dialogarci e ad amarli. Nella fede deve esserci anche una dimensione razionale, che tenga conto dell’altro. Se ci riuniamo con gli altri, è per una comunicazione reciproca, non per cercare un isolato contatto con Dio.

«Io ringrazio Dio che parlo in altre lingue più di tutti voi; ma nella chiesa preferisco dire cinque parole intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra lingua» (14:18-19).

Troviamo qui l’equilibrio di due estremi, come anche in molti altri passi della Parola di Dio. I due estremi, però, si combinano rimanendo distinti. Per fare un esempio, è come quando il bianco e il nero non si mescolano in un grigio, ma si integrano in una composizione armonica. Come succede nella base per scacchi o nell’alternanza fra strisce bianche e nere.

Paolo parlava in altre lingue più di tutti gli altri. Eppure, subito dopo, dice che nell’assemblea preferiva dire qualcosa che fosse utile anche agli altri. Il fatto che non parlasse in altre lingue nell’assemblea non significava che non lo facesse nel suo privato. Anzi, quando non era con la chiesa, lo faceva più di tutti.

«Fratelli, non siate bambini quanto al ragionare; siate pur bambini quanto a malizia, ma quanto al ragionare, siate uomini compiuti» (14:20).

Questo versetto è chiaro, ma potrebbe sembrare di poca importanza, se non lo colleghiamo a ciò che lo precede. Infatti, è comportarsi da insensati, da bambini che non hanno ancora imparato a ragionare, se non si arriva a comprendere che nell’assemblea bisogna parlare in modo da farsi capire, perché gli altri non possono dire “amen” quando preghiamo in altra lingua e non c’è un’interpretazione, dato che non capiscono ciò che diciamo.

5. LE LINGUE SERVONO DI SEGNO PER I NON CREDENTI (14:21-22)

«È scritto nella legge: “Parlerò a questo popolo per mezzo di persone che parlano altre lingue e per mezzo di labbra straniere; e neppure così mi ascolteranno”, dice il Signore. Quindi le lingue servono di segno non per i credenti, ma per i non credenti; la profezia, invece, serve di segno non per i non credenti, ma per i credenti» (14:21-22).

Che «le lingue servono di segno non per i credenti, ma per i non credenti» pone qualche problema, anche se è comunque chiaro il senso generale del discorso di Paolo. Proviamo a spiegarlo, andando a vedere nel suo contesto la citazione di Isaia fatta.

Se le lingue sono di segno per i non credenti, significa che sono utili e servono per far capire loro qualcosa. Tuttavia, al versetto 23 è scritto: «Quando dunque tutta la chiesa si riunisce, se tutti parlano in altre lingue ed entrano degli estranei o dei non credenti, non diranno che siete pazzi?». Sembra che Paolo si contraddica, perché i non credenti non colgono quel segno, ma pensano che chi parla in lingue sia un pazzo. Il versetto 22 inizia con «quindi», il che significa che si collega alla citazione precedente. Quando leggiamo una citazione dell’Antico Testamento solitamente pensiamo che sia un’esegesi. Qui, invece, come altrove e specialmente nella Lettera agli Ebrei, la citazione è in realtà un’applicazione. La prima cosa da fare è perciò andare a vedere in dettaglio la citazione nell’originale, che in questo caso è Isaia 28:11-12. Il pensiero lì espresso da Isaia, però, è più chiaro nel capitolo 6.

In Isaia 6:9-11 è scritto: «Ed egli disse: “Va’, e di’ a questo popolo: ‘Ascoltate, sì, ma senza capire; guardate, sì, ma senza discernere!’ Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendigli duri gli orecchi, e chiudigli gli occhi, in modo che non veda con i suoi occhi, non oda con i suoi orecchi, non intenda con il cuore, non si converta e non sia guarito!” E io dissi: “Fino a quando, Signore?” Egli rispose: “Finché le città siano devastate, senza abitanti, non vi sia più nessuno nelle case, e il paese sia ridotto in desolazione”». Isaia vedeva un popolo di Dio degenerato, perciò non più in grado di comprendere la Parola di Dio e di essere risanato.

Gesù fece un’applicazione di questo testo di Isaia, considerando simile la situazione del popolo di Dio del suo tempo. In Matteo 13:10-16 è scritto: «Allora i discepoli si avvicinarono e gli dissero: “Perché parli loro in parabole?” Egli rispose loro: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli; ma a loro non è dato. Perché a chiunque ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza; ma a chiunque non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole, perché, vedendo, non vedono; e udendo, non odono né comprendono. E si adempie in loro la profezia d’Isaia che dice: ‘Udrete con i vostri orecchi e non comprenderete; guarderete con i vostri occhi e non vedrete; perché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile: sono diventati duri d’orecchi e hanno chiuso gli occhi, per non rischiare di vedere con gli occhi e di udire con gli orecchi, e di comprendere con il cuore e di convertirsi, perché io li guarisca’. Ma beati gli occhi vostri, perché vedono; e i vostri orecchi, perché odono!». Gesù aveva cercato di interagire e di farsi capire da tutti, ma dal capitolo 13 di Matteo si registra un cambiamento, dovuto alla incapacità della maggioranza di comprendere a fondo (cfr. Mat 11:20-21). Le folle erano contente di essere guarite, ma poi non erano capaci di andare avanti nel percorso. Dunque, mentre prima Gesù era andato nei villaggi, nelle sinagoghe e nelle piazze, dal capitolo 13 Gesù schivò le folle, concentrando il suo insegnamento sui discepoli.

Con questa comprensione di Isaia 6, torniamo al testo utilizzato da Paolo, ovvero Isaia 28:11-12, dov’è scritto: «Ebbene, sarà mediante labbra balbuzienti e mediante una lingua straniera che Javè parlerà a questo popolo. Egli aveva detto loro: “Ecco il riposo: lasciar riposare lo stanco; questo è il refrigerio!” Ma quelli non hanno voluto ascoltare». Più avanti è scritto: «Ho udito, da parte del Signore, di Javè degli eserciti, che è deciso uno sterminio completo di tutto il paese» (28:22). La decisione era presa e la lingua straniera del versetto 11 indicava l’invasione di un esercito straniero che li avrebbe deportati, distruggendo tutto e portando loro il giudizio di Dio.

Paolo inizia il discorso precisando che richiamerà ciò che «è scritto nella legge», intendendo l’Antico Testamento in generale e non solo il Pentateuco. Poi cita il messaggio di Dio di Isaia 28:11-12: «Parlerò a questo popolo per mezzo di persone che parlano altre lingue e per mezzo di labbra straniere; e neppure così mi ascolteranno». Parlare al popolo di Dio in una lingua incomprensibile significava dunque considerarli ribelli e portare loro un giudizio. È come se Paolo dicesse che «le lingue servono di segno non per i credenti, ma per quelli del popolo di Dio che sono diventati sostanzialmente non credenti [nel senso di pagani]». Quindi, se in un’assemblea di credenti in Gesù uno parla in una lingua che nessuno comprende, egli assume il ruolo dell’esercito straniero che porta il giudizio di Dio. Diventando così un segno per coloro che, sebbene formalmente facenti parte del popolo di Dio, in realtà non hanno più fede. «La profezia, invece, serve di segno non per i non credenti, ma per i credenti» (v. 22b). Perché è rivolta a chi vuole ascoltare, ovvero ai credenti ubbidienti.

Per molti è implicito che qui Paolo intenda un parlare in lingue con l’interpretazione, ma noi non lo abbiamo considerato tale, perché in quel modo assomiglierebbe a una profezia. Abbiamo invece affrontato il tema pensando a come le lingue senza interpretazione possano essere un segno per i non credenti. Il discorso risulta allora coerente con ciò che lo precede e segue.

6. LA PROFEZIA MANIFESTA L’AMORE DI DIO (14:23-25)

«Quando dunque tutta la chiesa si riunisce, se tutti parlano in altre lingue ed entrano degli estranei o dei non credenti, non diranno che siete pazzi? Ma se tutti profetizzano ed entra qualche non credente o qualche estraneo, egli è convinto da tutti, è scrutato da tutti, i segreti del suo cuore sono svelati; e così, gettandosi giù con la faccia a terra, adorerà Dio, proclamando che Dio è veramente fra voi» (14:23-25).

Al versetto 23 è implicito che nel parlare tutti in altre lingue non ci fosse l’interpretazione, come d’altronde lo abbiamo supposto nel versetto precedente.

Paolo ha scritto: «Quando dunque tutta la chiesa si riunisce». Il contesto è quindi quello dell’assemblea di tutti i credenti in Gesù di un certo luogo.

Poi è precisato che a mostrare la presenza di Dio nella chiesa non è l’esercizio del dono delle lingue non interpretate, ma quello di profezia. Chi ascolterà le parole profetiche le accoglierà come da parte di Dio, se chi le dice mostra i segni che non sono un suo pensiero personale. Nella chiesa si percepirà allora che la presenza di Dio permea i credenti.

7. UN ESEMPIO DI DIVERSITÀ COSTRUTTIVA

Riportiamo l’esperienza vissuta da un credente, il quale faceva parte di una chiesa dove non si credeva nella possibilità che oggi ci potessero essere i doni di cui stiamo parlando. Anche lui aveva questa convinzione. Una sera, però, pregando a casa sua, si è ritrovato con suo stupore a parlare in altre lingue. Quando lo ha detto ai fratelli, essi si sono insospettiti e volevano persino scomunicarlo. Egli ha però deciso di non farne una questione divisiva, scegliendo di non parlarne più. Successivamente questo fratello ha dimostrato una grande capacità di servizio nella chiesa e un grande amore efficace per il prossimo.

Il suo parlare in lingue è stato un segno per quella chiesa un po’ degenerata, i cui membri erano diventati poco credenti. Quindi, sì al parlare in altre lingue, ma se è davvero un dono di Dio, che ci dà una comunicazione più profonda con lui. Se è davvero così, questo si rifletterà nell’amore per il prossimo, nell’umiltà e in uno spirito di servizio efficace. Riteniamo che questo sia un esempio di uno che ha compreso la Parola di Dio, l’ha vissuta e messa in pratica, beneficiandone per sé stesso e per il prossimo. Il tutto senza fare dispute e provocare divisioni. Cercando invece ciò che unisce, senza rinnegare niente.