Alessia Lanini

DA ADAMO AGLI APOSTOLI

Una panoramica di tutta la Bibbia basata sul testoin sé

Volume (da definire)

Scuola elementare di cristianesimo

Dialoghi sulla prima lettera di Paolo ai Corinzi, condotti da Fernando De Angelis


BOZZA 1 DEL DIALOGO 21: 1CORINZI 9:1-27

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1. La base del capitolo 9 posta nel capitolo 8       
2. La struttura del capitolo 9        
3. Paolo difende il suo apostolato (9:1-3)  
4. Paolo espone e difende i suoi diritti in quanto apostolo (9:4-14)         
5. Paolo amava rinunciare ai propri diritti (9:15-18)      
6. Libero da tutti per farsi servo di tutti (9:19-23)    
7. L’atleta come esempio per la vita cristiana (9:24-27)   

Dialogo 21

1CORINZI 9:1-27

1. LA BASE DEL CAPITOLO 9 POSTA NEL CAPITOLO 8

Del capitolo 9 della 1Corinzi la base è posta nella parte finale di quello precedente, cioè in 8:11-13, dove troviamo una sintesi anticipatrice che ora vediamo.

In 8:11 Paolo dice: «Così per la tua conoscenza». Si rivolge dunque al singolo, perché ognuno è responsabile per se stesso riguardo al comportarsi correttamente. Poi prosegue rivolgendosi all’insieme della chiesa: «Ora, peccando in tal modo contro i fratelli, ferendo la loro coscienza che è debole, voi peccate contro il Messia» (8:12). Portando infine il discorso sull’applicazione a se stesso dei suoi insegnamenti, che è la base del capitolo 9: «Perciò, se un cibo scandalizza mio fratello, non mangerò mai più carne, per non scandalizzare mio fratello» (8:13). Usando «mio», Paolo introduce la sezione successiva, dove fa vedere come ha applicato il non scandalizzare.

Abbiamo già visto, in 4:17, come l’insegnamento e il comportamento di Paolo fossero paralleli; c’è infatti scritto: «Vi ho mandato Timoteo, che è mio caro e fedele figlio nel Signore; egli vi ricorderà come io mi comporto nel Messia Gesù e come insegno dappertutto, in ogni chiesa».

Sebbene ognuno di noi abbia in genere molta strada da fare affinché il proprio comportamento rifletta il proprio insegnamento, è a questo che dovremmo tendere e non al «fate quel che vi dico, ma non fate come faccio». Un insegnante cristiano deve essere uno che ha vissuto, e vive, le cose che insegna.

Paolo, quindi, dopo aver spiegato ai Corinzi come avrebbero dovuto comportarsi, racconta come lui stesso si comportava.

2. LA STRUTTURA DEL CAPITOLO 9

Il capitolo 9 può essere diviso in cinque parti, nelle quali Paolo parla di sé in modo ciclico.

-parte 1: Paolo difende la sua autorità apostolica (vv. 1-3);

-parte 2: Paolo espone quali sono i diritti che ha in quanto apostolo (vv. 4-14);

-parte 3: Paolo spiega come non ha fatto uso dei suoi diritti per poter portare avanti più efficacemente la predicazione del Vangelo (vv. 15-18);

-parte 4: Paolo dice come ha applicato a sé il principio generale che propone, ovvero di mettersi al livello dell’interlocutore affinché accolga il messaggio del Vangelo (vv. 19-23);

-parte 5: Paolo fa un esempio tratto dall’atletica per illustrare l’atteggiamento generale da avere nella vita cristiana (vv. 24-27).

3. PAOLO DIFENDE IL SUO APOSTOLATO (9:1-3)

«Non sono libero? Non sono apostolo? Non ho veduto Gesù, il nostro Signore? Non siete voi l’opera mia nel Signore? Se per altri non sono apostolo, lo sono almeno per voi; perché il sigillo del mio apostolato siete voi, nel Signore. Questa è la mia difesa di fronte a quelli che mi sottopongono a inchiesta» (9:1-3).

È oggi normale pensare agli “apostoli Pietro e Paolo”, come se fossero stati apostoli allo stesso modo, ma vediamo da questi versetti che per Paolo non era facile farsi riconoscere apostolo e certamente lo era in un senso diverso da Pietro. Innanzitutto, chiariamo che “apostolo” significa semplicemente “mandato”, “missionario”. Mentre Pietro era apostolo in quanto inviato da Gesù pubblicamente, Paolo era invece inviato dalla chiesa di Antiochia, ovvero da una chiesa locale che gli riconosceva il ruolo di missionario. Perciò Paolo non era riconosciuto apostolo da tutti e alcuni lo ritenevano un credente qualsiasi.

Paolo si trova dunque a dover portare le prove del suo essere apostolo, poiché non aveva titoli formali come quelli di Pietro e degli altri Undici. Al versetto 2 Paolo dice: «Il sigillo del mio apostolato siete voi, nel Signore». Il sigillo era ciò che si usava per garantire la provenienza di un certificato. Paolo dice che la sua autorità di apostolo era garantita dall’efficace opera che aveva compiuto nella chiesa di Corinto.

Un concetto simile lo esprime anche in 2Corinzi 3:1-3: «Cominciamo forse di nuovo a raccomandare noi stessi? O abbiamo bisogno, come alcuni, di lettere di raccomandazione presso di voi o da voi? La nostra lettera siete voi, scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini; è noto che voi siete una lettera del Messia, scritta mediante il nostro servizio, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente; non su tavole di pietra, ma su tavole che sono cuori di carne». Paolo non aveva un diploma cartaceo per dimostrare il suo essere apostolo, ma l’opera che aveva portata avanti nella vita dei credenti. Alcuni si vantano di avere certificati di carta rilasciati da una scuola biblica, ma talvolta questi certificati cartacei significano poco, mentre i “certificati di carne” di Paolo dimostravano chiaramente l’opera che Dio gli aveva dato di fare.

Gesù era conosciuto come «figlio di Giuseppe» (Luca 4:22; Giov 1:45, 6:42), un semplice falegname di Nazaret. Di lui dicevano: «Come mai conosce le Scritture senza aver fatto studi?» (Giov 7:15). Paolo aveva preso l’esempio da Gesù, il quale non esibiva diplomi cartacei, volendo essere valutato per ciò che Dio gli dava la potenza di fare. Su quest’ultimo aspetto vogliamo soffermarci.

Spesso si dice che Gesù era veramente il Messia perché era in accordo con le profezie, ma prima della resurrezione non c’era nessuna profezia applicabile esclusivamente a lui e che poteva provare in modo chiaro che fosse il Messia. Per esempio, per quanto riguarda Michea 5:1, discendenti di Davide nati a Betlemme ce ne erano sempre stati. È dopo la resurrezione che l’insieme delle profezie diventa chiaro, non prima. Su quale base allora Gesù invitava ad essere riconosciuto Messia? In Giovanni 10:37-38 è scritto: «Se non faccio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le faccio, anche se non credete a me, credete alle opere, affinché sappiate e riconosciate che il Padre è in me e io sono nel Padre». L’invito di Gesù a considerare le sue opere è riportato da Giovanni almeno altre dieci volte, in 2:23, 3:2;5:36; 7:31; 8:18; 8:29;10:25; 11:42; 12:37; 20:30-31.

Oggi un ebreo potrebbe dirci: «Tu dici che Gesù è il Messia, ma a me non torna. Non c’è una dimostrazione che lui sia il Messia sulla base delle profezie dell’Antico Testamento». Potremmo rispondergli: «Hai ragione. Ma io ti chiedo: secondo te, è vero che Gesù è risorto? È vero che ha risuscitato Lazzaro? Sono veri i fatti raccontati nei Vangeli?». Da queste basi bisogna partire, poi si possono anche interpretare le profezie e vedere se sono in accordo. Il punto di partenza deve essere riconoscere e accettare che tali fatti sono veri e che Gesù è davvero risorto.

Concludendo, come credenti, dobbiamo farci conoscere non tanto per i nostri discorsi, ma principalmente per come viviamo la nostra vita cristiana. Questo è il vero insegnamento.

4. PAOLO ESPONE E DIFENDE I SUOI DIRITTI IN QUANTO APOSTOLO (9:4-14)

«Non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo il diritto di condurre con noi una moglie, sorella in fede, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? O siamo soltanto io e Barnaba a non avere il diritto di non lavorare? Chi mai fa il soldato a proprie spese? Chi pianta una vigna e non ne mangia il frutto? O chi pascola un gregge e non si ciba del latte del gregge?» (9:4-7).

Fra i diritti di un apostolo, Paolo mette per primo quello di mangiare e di bere, cioè il diritto di ricevere un compenso in denaro.

Il secondo diritto è di farsi una famiglia. Ancora oggi a qualche missionario può capitare che un suo sostenitore gli dica: «Io ti sostengo, però non puoi sposarti e avere figli, perché io sostengo te, ma non la tua famiglia». Ci sono quindi alcuni servitori di Gesù a cui viene imposto di fare voto di castità.

Il terzo diritto è quello di non lavorare, per cui anche quello missionario è da vedere come un lavoro sufficientemente retribuito. Paolo fa poi degli esempi, cominciando con una norma della Legge di Mosè.

«Dico forse queste cose da un punto di vista umano? Non le dice anche la legge? Difatti, nella legge di Mosè è scritto: «Non mettere la museruola al bue che trebbia il grano». Forse che Dio si dà pensiero dei buoi? O non dice così proprio per noi? Certo, per noi fu scritto così; perché chi ara deve arare con speranza e chi trebbia il grano deve trebbiarlo con la speranza di averne la sua parte» (9:8-10).

La legge di Mosè citata è Deuteronomio 25:4. L’intento di Paolo, però, non è di farne un’esegesi, ma un’applicazione. Paolo prende questa disposizione data da Dio in circostanze specifiche e ne ricava un principio applicabile alla situazione che lui sta vivendo. Dicendo di «non mettere la museruola al bue che trebbia il grano», Dio voleva insegnare di rendere partecipe il lavoratore del frutto del suo lavoro. Se Dio si è preoccupato che il bue fosse reso partecipe del grano, tanto più si preoccupa che una persona sia resa partecipe dei frutti ottenuti dalla predicazione del Vangelo.

Molti oggi non sanno cosa significhi “il bue che trebbia il grano”. Prima che lo facessero le macchine, per separare il chicco dalla pula, il grano mietuto veniva messo sull’aia e poi fatto pestare da bovini o equini. Gli animali, legati uno all’altro, avanzavano in modo circolare e ogni tanto si abbassavano per mangiare il grano. Perciò l’agricoltore gli metteva la museruola, salvaguardando così tutto il raccolto, ma Dio dice di non farlo. Paolo comunque non usa questa applicazione opinabile come decisiva, ma come rafforzativa.

«Se abbiamo seminato per voi i beni spirituali, è forse gran cosa se mietiamo i vostri beni materiali? Se altri hanno questo diritto su di voi, non lo abbiamo noi molto di più? Ma non abbiamo fatto uso di questo diritto; anzi, sopportiamo ogni cosa per non creare alcun ostacolo al vangelo del Messia» (9:11-12).

Paolo fa qui una prima sintesi. Dopo aver difeso i suoi diritti, conclude con un «ma non abbiamo fatto uso di questo diritto», aspetto sul quale tornerà subito e più ampiamente. Aggiunge poi che, lui e i suoi collaboratori, sopportavano «ogni cosa per non creare alcun ostacolo al vangelo del Messia», la cui diffusione era il loro interesse centrale.

«Non sapete che quelli che fanno il servizio sacro mangiano ciò che è offerto nel tempio? E che coloro che attendono all’altare hanno parte all’altare? Similmente, il Signore ha ordinato che coloro che annunciano il vangelo vivano del vangelo» (9:13-14).

Qui abbiamo un’ulteriore sintesi chiarificatrice, nella quale viene fatta un’altra applicazione tratta da Mosè. Paolo fa notare che, nell’Antico Testamento, quelli che erano impegnati nell’opera di Dio venivano retribuiti. Applica così il servizio dei sacerdoti nel tempio alla predicazione del Vangelo.

5. PAOLO AMAVA RINUNCIARE AI PROPRI DIRITTI (9:15-18)

«Io però non ho fatto alcun uso di questi diritti, e non ho scritto questo perché si faccia così a mio riguardo; poiché preferirei morire, anziché vedere qualcuno rendere vano il mio vanto» (9:15).

Paolo sviluppa ora quanto accennato al versetto 12, dove aveva scritto: «Ma non abbiamo fatto uso di questo diritto».

Va di moda reclamare i diritti, e qualcuno arriva fino a rischiare la morte per conquistarli. Paolo invece preferirebbe morire, anziché esercitare un suo diritto, volendo comunque adempiere il suo dovere di portare avanti l’annuncio del Vangelo. Elogiare Paolo è facile, ma non è facile imitarlo, amando più i doveri che i diritti.

«Perché se evangelizzo, non debbo vantarmi, poiché necessità me n’è imposta; e guai a me se non evangelizzo! Se lo faccio volenterosamente ne ho ricompensa; ma se non lo faccio volenterosamente è sempre un’amministrazione che mi è affidata» (9:16-17).

Spesso chi predica legge il versetto 16 come se Paolo dicesse «guai a te se non evangelizzi», ma non è una comprensione corretta. Si potrebbe dire che, visto che Paolo è un esempio, se dice «guai a me», possiamo intenderlo anche come «guai a noi». Paolo però poi precisa che è «un’amministrazione che mi è affidata» (v. 17). La considera, quindi, come una chiamata specifica riguardante lui, che aveva il dovere di adempiere la sua missione di evangelista pubblico. Questo ci è confermato anche dal fatto che, dopo una predicazione di Paolo, non diventavano tutti missionari, andando a predicare pubblicamente come faceva lui.

In connessione con il dire che Paolo intenda «guai a te se non evangelizzi», viene citato Marco 5:19, dov’è scritto: «Va’ a casa tua dai tuoi, e racconta loro le grandi cose che il Signore ti ha fatte, e come ha avuto pietà di te». L’impressione è che Gesù inviti ad andare e raccontare la sua opera, quindi a evangelizzare, e il passo di Marco sembra andare in questa direzione, ma guardando il contesto, troviamo espressioni che contrastano con questa interpretazione.

Prima di quel passo di Marco, in 1:44-45, troviamo scritto: «E [Gesù] gli disse: “Guarda di non dire nulla a nessuno, ma va’, mostrati al sacerdote, offri per la tua purificazione quel che Mosè ha prescritto; questo serva loro di testimonianza”. Ma quello, appena partito, si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare apertamente in città; ma se ne stava fuori in luoghi deserti, e da ogni parte la gente accorreva a lui». Gesù aveva detto a quel lebbroso guarito di non parlare a nessuno della guarigione ricevuta, ma lui non si è trattenuto e si è messo a parlarne. In Marco 7:36 troviamo una sintesi significativa: «Gesù ordinò loro di non parlarne a nessuno; ma più lo vietava loro e più lo divulgavano». Ci sono molti altri passi che riportano il fatto che Gesù diceva di non raccontare e invece quelli raccontavano. Alla fine delle predicazioni nelle chiese succede spesso che venga fatto l’invito ad andare e testimoniare durante la settimana, ma in quella successiva si constata che chi non evangelizzava ha continuato a non evangelizzare. In un certo senso, meglio così, visto che sarebbe stato più che altro il risultato di uno sforzo umano non potenziato dallo Spirito Santo.

Insomma, il «Va’ e racconta» di Marco 5:19 è un’eccezione da non trasformare in regola, perché dovuta a circostanze particolari, come confermato dal contesto del versetto, che fa parte di Marco 5:1-20. Gesù era andato in una zona fuori dalla Giudea, a Gerasa, nella Decapoli, dove erano di cultura e lingua greca. Qui liberò un indemoniato e i demoni andarono nei porci, che si gettarono in mare e morirono. A seguito di questa perdita, tutta la gente del posto chiese a Gesù di andarsene. L’uomo che era stato liberato voleva andare con lui, ma Gesù non glielo permise. È in questa circostanza particolare, quando Gesù se ne dovette andare lasciando lì un solo credente, che gli disse «va’ a casa tua dai tuoi e racconta» (5:19). Che poi non era un invito ad andare nelle piazze, ma a testimoniare alla propria famiglia, cioè qualcosa di abbastanza scontato. In generale, comunque, vediamo che la testimonianza è l’effetto di un traboccare.

Se le chiese si fanno strumento di un’esperienza con Gesù traboccante, allora non ci sarà bisogno di ricordare continuamente ai credenti di testimoniare, perché lo faranno anche qualora fosse loro proibito. Se invece le chiese privilegiano un triste “Vangelo del dovere”, predicando ciò che si dovrebbe fare e i pesi che si dovrebbero portare, anche se si invitano i credenti a testimoniare, questi non parleranno con gioia della propria esperienza, ma potranno al massimo recitare una formula e trasmettere una dottrina.

Dio non ci chiede la tassa del testimoniare, come se operasse nella nostra vita per farsi pubblicità e quindi noi dovessimo con essa compensarlo. Testimoniare è qualcosa che dovrebbe sorgere dal nostro rapporto vivente con Dio e dal desiderio di comunicare questa esperienza viva. Se abbiamo con Gesù un’esperienza traboccante, non riusciremo a stare zitti.

Vogliamo riportare poi le parole di Gesù in Atti 1:8, dove disse agli apostoli: «Voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra». Gli apostoli non partirono subito per evangelizzare, ma attesero di essere rivestiti di potenza. Senz’altro noi dobbiamo fare e testimoniare (vedi anche Mat 28:19-20), ma dobbiamo renderci conto che finché Dio non ci ha attrezzati e formati per svolgere un certo compito, il nostro sforzo umano non solo vale zero, ma produce l’effetto contrario. Nell’attesa potremmo quindi dire: «Signore Gesù, non ho la forza né la potenza. Le attendo da te, perché desidero obbedirti e servirti».

«Qual è dunque la mia ricompensa? Questa: che, annunciando il vangelo, io offra il vangelo gratuitamente, senza valermi del diritto che il vangelo mi dà» (9:15-19).

Paolo torna sul concetto espresso ai versetti 12b e 15, dicendo che ciò che lo ricompensa di più è offrire il vangelo gratuitamente, rinunciando ai diritti economici che gliene deriverebbero.

6. LIBERO DA TUTTI PER FARSI SERVO DI TUTTI (9:19-23)

«Poiché, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il maggior numero» (9:19).

Queste parole sono un’efficace sintesi finale, che prepara il terreno per ciò che Paolo dice subito dopo, precisando come si è fatto «servo di tutti».

«Con i Giudei mi sono fatto giudeo, per guadagnare i Giudei; con quelli che sono sotto la legge mi sono fatto come uno che è sotto la legge (benché io stesso non sia sottoposto alla legge), per guadagnare quelli che sono sotto la legge; con quelli che sono senza legge mi sono fatto come se fossi senza legge (pur non essendo senza la legge di Dio, ma essendo sotto la legge del Messia), per guadagnare quelli che sono senza legge. Con i deboli mi sono fatto debole, per guadagnare i deboli; mi sono fatto ogni cosa a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni. E faccio tutto per il vangelo, al fine di esserne partecipe insieme ad altri» (9:20-23).

Paolo si è fatto servo di tutti mettendosi al livello dei suoi interlocutori, affinché essi potessero poi seguirlo nel percorso che lui li invitava a fare tramite il Vangelo, avente come meta l’essere simili a Gesù.

Qui si vede bene la ciclicità, essendo introdotti concetti che vengono poi ripresi e sviluppati. C’è infatti un evidente parallelismo tra i versetti 19 e 22, perché prima dice che si è «fatto servo di tutti» e poi che si è «fatto ogni cosa a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni».

7. L’ATLETA COME ESEMPIO PER LA VITA CRISTIANA (9:24-27)

«Non sapete che coloro i quali corrono nello stadio corrono tutti, ma uno solo ottiene il premio? Correte in modo da riportarlo. Chiunque fa l’atleta è temperato in ogni cosa; e quelli lo fanno per ricevere una corona corruttibile; ma noi, per una incorruttibile. Io quindi corro così; non in modo incerto; lotto al pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi, tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia squalificato» (9:24-27).

Paolo conclude il capitolo 9 portando un esempio tratto dall’atletica. Con esso spiega l’atteggiamento che lui aveva, e che i credenti dovrebbero avere, per impostare la propria vita cristiana. Ci soffermeremo su pochi aspetti.

«Lotto al pugilato, ma non come chi batte l’aria» (v. 26). Spesso si sentono inviti al darsi da fare, senza una precisa strategia. Paolo fa il parallelo con un pugile, che sferra pugni ben mirati. Se vogliamo darci da fare, quindi, come prima cosa è bene riflettere e organizzarci.

«Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù» (v. 27a). Questo trattarsi con durezza permetteva a Paolo di ottenere buoni risultati. Oggi i genitori ai figli e i pastori ai credenti spesso somministrano spesso dolcezza, senza fermezza. Un’educazione basata solo sulla dolcezza, però, è una preparazione al fallimento. Bisogna chiedersi se c’è davvero libertà nell’essere troppo indulgenti verso se stessi, atteggiamento al quale si deve fare attenzione. Infatti, esso porta troppo spesso a concludere poco e di poco valore. Se non siamo severi con noi stessi, rischiamo fallimenti a catena.

Ci è data anche la spiegazione del perché Paolo avesse tale severo atteggiamento con se stesso: «Perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia squalificato» (v. 27b). Infatti, chi si sente libero senza avere alcuna regola dentro di sé si smarrisce, perché prova di tutto, in quanto non sa cosa fare davvero, distruggendosi presto. Paolo ci mostra, dunque, che anche un predicatore può cadere, specie se è troppo sicuro di sé. Facciamo dunque attenzione. Più avanti Paolo ammonisce: «Chi pensa di stare in piedi guardi di non cadere» (10:12).